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Indagine sul vero motore dell'economia

Ugo Bertone

Ooops. La notizia della morte dell’auto era stata largamente esagerata. Non c’è solo Melfi. In Europa il settore torna a esportare e ad assumere. Negli Stati Uniti il boom dell’usato anticipa le fortune della classe media. Il sogno verde di Obama si inchina alle super vendite di Suv. Apple e car sharing alla riscossa.

Milano. Tenebre addio. Sull’automobile torna a splendere il sole. No non è ancora il paradiso, ammonisce Sergio Marchionne. Al più il purgatorio. “Ma l’inferno – spiega a Detroit – ce lo siamo lasciati alle spalle, finalmente”. La resurrezione prossima ventura, del resto, è già stata festeggiata questa settimana da Matteo Renzi “gasatissimo” dalla visita a Mirafiori, lo stabilimento in cui nacquero le utilitarie del boom e che ora si accinge a sfornare Suv Maserati e Alfa al servizio della domanda europea ma, soprattutto, americana. Ma non è solo o soprattutto questione di cilindrate, cavalli o status symbol. “Il rapporto con l’automobile sta cambiando – sostiene Jeremy Rifkin – Al possesso si comincia a preferire l’accesso”. E così in tutto il mondo stanno guadagnando seguito i club di car sharing dove in cambio di una piccola quota di ingresso è possibile accedere a una macchina quando se ne ha bisogno. Il fenomeno, a giudicare dalle previsioni, promette di essere esplosivo: entro il 2020, secondo la Frost & Sullivan Consultants, nell’Unione europea vi saranno più di 200 compagnie di car sharing con un parco macchine di 250.000 vetture al servizio di 15 milioni di iscritti. Ancor più vertiginosa, promettono gli esperti, sarà la crescita sul mercato americano che varrà 3 miliardi di dollari nel 2016 (contro i 2 abbondanti dell’Europa). Anche il 17 per cento degli italiani, secondo una rilevazione Nielsen, è ormai pronto a condividere l’auto, come testimoniano il successo delle iniziative, private o pubbliche, di car sharing o car pooling che spuntano nelle grandi città (con Roma e Milano invase da Enjoy dell’Eni e Car2Go della Daimler). Insomma, l’auto ha cambiato pelle e senz’altro la cambierà ancora. E forse un giorno mica tanto lontano si avvererà la profezia di Sergey Brin, cofondatore di Google: milioni di iscritti al car sharing che prenoteranno via internet macchine senza conducente che li porteranno a destinazione per poi andare a prelevare un altro cliente o parcheggiare in un garage. “Così – esulta Rifkin – si ridurrà il numero delle auto in circolazione”.

 

Ma non è certo questo il Paradiso che sogna Marchionne. O quel che ci riserva il prossimo futuro, finalmente segnato dalla ripresa che tanto vale in termini di occupazione: a Pomigliano, dove oggi si lavora di sabato per smaltire le prenotazioni per la Panda piuttosto che a Melfi pronta ad accogliere mille nuovi assunti (più il rientro di 500 cassintegrati).  E non è un fenomeno che riguarda la sola Fca. Fioccano le prenotazioni alla Ford europea o in casa Opel, sorgono nuove fabbriche in Spagna o nel Regno Unito. E in casa Renault, dove due anni fa i sindacati avevano accettato lo scambio “meno salario-più orario” in cambio della promessa di non dirottare investimenti dalla Francia, la scorsa settimana è arrivato l’annuncio di mille nuovi posti di lavoro più altrettante nuove posizioni da apprendista. Le Borse gradiscono: in due soli giorni il titolo a Parigi è salito del 15 per cento. Fca, da inizio anno, vale il 30 per cento in più. Il motivo è semplice. Si torna ad assumere perché l’auto torna in cima ai desideri e alle spese delle famiglie, benestanti ma non solo. Alla faccia dell’economia verde e sostenibile.

 

La festa è ripartita a sorpresa, così come il calo del carburante, a sentire l’analisi di Giovanni Barberis, direttore finanziario della D’Amico, colosso del trasporto dei prodotti raffinati, diesel e benzina in testa. “Pensavamo, visto il calo dei prezzi, di dover affrontare una stagione di consumi a rilento – commenta – Al contrario, le nostre navi viaggiano per l’Europa a pieno carico: i consumi di benzina sono ripartiti”. E i Big dell’auto confidano di replicare nel Vecchio continente il Big party americano. Il mercato dell’auto, in America, sale senza sosta da 73 mesi, come non è mai successo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma la domanda non si ferma. Anzi, secondo gli analisti nel 2015 si venderanno 16,9 milioni di veicoli, 200 mila in più di quanto già previsto, meglio che negli anni d’oro. Il tutto grazie a una miscela esplosiva: la ripresa dell’occupazione, che è ripartita proprio dalle fabbriche di auto; la benzina che, nonostante il rimbalzo di questi giorni, costa così poco (2,07 dollari al gallone, il 43 per cento in meno di un anno fa) che il pieno di un Hummer o di un F-150 Ford (l’auto più venduta) non spaventa nessuno. E poi, più di tutto, c’è il credito, mai così facile. Una marea, anzi un oceano di car loans che hanno ormai raggiunto vette da levare il fiato: 944 miliardi di dollari, il 35 per cento in più del 2010, l’anno nero, quando i debiti degli automobilisti si erano ritorti come un boomerang contro i dealer, obbligati a pignorare auto invendibili. Acqua passata. Oggi le reti di vendita fanno a gara per offrire prestiti e incassare le commissioni. E non importa a nessuno che possano crescere le insolvenze: finché la locomotiva americana assorbirà nuovi lavoratori al ritmo di 200 mila assunzioni al mese, non spaventa di sicuro il rischio di qualche cambiale scoperta.

 

I soliti americani, viene da dire. Ma la povera, depressa Europa, grazie anche all’aiuto del banchiere centrale Mario Draghi (i prestiti auto sono destinati a far la parte del leone negli Asset-backed securities acquistati dalla Banca centrale), segue un percorso simile. Nel Regno Unito, il paese che più produce (dopo la Germania) e più esporta, tre auto su quattro sono vendute assieme a un pacchetto di agevolazioni finanziarie. Intanto la ripresa delle vendite che a livello continentale dura da 17 mesi, a gennaio (mese dei record, più 6,7 per cento rispetto allo stesso mese del 2014) ha investito i paesi più colpiti dall’austerità: il Portogallo o la Spagna che, spinta dagli incentivi, ha vissuto un vero e proprio boom (più 25,8 per cento rispetto a dodici mesi fa). Senza dimenticare l’Italia, con un più 10,9 per cento. Alcuni dati resi noti ieri dall’Istat confermano la tendenza: nell’intero 2014 il fatturato dell’industria è aumentato rispetto al 2013 dello 0,1 per cento (con un’accelerazione a fine anno), dello 0,9 per cento se si tiene conto degli effetti di calendario; e l’incremento tendenziale più rilevante si registra nella fabbricazione di mezzi di trasporto (più 13,2 per cento), veicoli inclusi. Più precisamente: considerato come base di partenza il 2010 (100), l’indice del fatturato per i soli veicoli il dicembre scorso era a 118, un anno prima era ancora a 88. Dati sorprendenti, al punto da suscitare, parola del Financial Times, “grandi speranze sulla consistenza della fragile ripresa italiana”. Già, nessun settore conta più dell’auto per misurare gli umori dell’economia. Un po’ perché ogni tuta blu in fabbrica (dove oggi, per la verità, si incontrano ormai più camici bianchi e computer che cacciavite a stella) porta con sé 6-7 posti di lavoro, dal marketing all’indotto fino alla pubblicità o all’assistenza. Molto perché l’industria delle quattro ruote, 98 anni dopo la costruzione nel 1917 dell’impianto Ford di Baton Rouge, la culla della catena di montaggio, resta nel bene e nel male il simbolo della società industriale, con i suoi problemi di congestione urbana e di inquinamento, per decenni sinonimo di sfruttamento e di flussi migratori selvaggi. Un diavolo da esorcizzare, per chi stravede per lo sviluppo compatibile che s’accompagna a divieti di circolazione, aree “car free” e operazioni di “car sharing” piuttosto che di incentivi all’auto elettrica o alle domeniche senz’auto. In attesa che la tecnologia, finalmente piegata al bene, ci regali auto all’idrogeno, elettriche o comunque verdi. Ma, ahimè, il diavolo ha il suo fascino, soprattutto quando avanza su un Suv più corazzato di un carro armato. 

 

I sogni verdi di Barack Obama sono finiti in un cassetto. Tra le auto più gettonate in America, con vendite raddoppiate rispetto a un anno fa, ci sono la Cadillac Escalade e la Ford Mustang, dai motori rombanti e assetati di benzina. Un po’ come il Suv Jeep, modello di punta della scuderia Fiat-Chrysler (più 23,8 gli acquisti a gennaio). Con buona pace dei propositi del 2009, l’anno della grande paura e del pentimento ecologico, quando Obama aprì le porte della disastrata Chrysler al salvatore (un po’ acciaccato) in arrivo da Torino, con la sua promessa di motori a basso consumo.

 

Oggi i prototipi più “risparmiosi” segnano il passo. E lo stesso Marchionne non fa mistero che le richieste dell’Epa (Environmental Protection Agency), cioè l’obbligo di arrivare a produrre entro il 2025 motori capaci di raggiungere il traguardo di 54,5 miglia con un gallone di benzina (equivalente a 25,5 chilometri con un litro), sia ormai un brutto impiccio “che sta rendendo la nostra vita più complicata”. Non sono più virtuosi i tedeschi, da sempre impegnati a rallentare le normative Ue, per non penalizzare i motori made in Deutschland rispetto alle piccole italiane o francesi. Certo, non c’è messaggio pubblicitario che non faccia riferimento all’efficienza energetica e ai consumi limitati. Ma in realtà, a giudicare dai dati del Center of automotive management, le emissioni di CO2 delle nuove auto messe in commercio in Germania nel 2014 calano in media solo del 2,6 per cento rispetto all’anno precedente, il dato che rappresenta il valore più basso dal 2009. Merito (o colpa) dei Suv che emettono in media 141 grammi di CO2 per chilometro, mentre i fuoristrada arrivano addirittura a 167, ben oltre la media delle automobili “normali”, che si allineano mediamente sui 133 grammi. Il verde, insomma, non va più di moda. Alla faccia del global warming o della carenza di parcheggi, l’auto che piace per ora è grande, potente, meglio se prepotente. In poche parole il Suv, lo Sport Utility Vehicle che, da strumento di lavoro, è diventato l’oggetto di culto del benessere della upper class. La definitiva incoronazione arriva dal feudo della Regina: la Rolls Royce, che pure gode di ottima salute (per la prima volta sono stati venduti oltre 4 mila esemplari nel 2014), ha appena annunciato che dalle sue linee presto uscirà un Suv destinato a sceicchi e a gestori della City. Certo, sarà un Suv da 200 mila sterline, ma l’effetto resta quello della Regina Elisabetta convertita alla minigonna.

 

Per volere dei nuovi padroni, la tedesca Bmw che proprio in questi giorni fa sfrecciare sul circuito del Texas la nuova X6 M, un mostro di sicurezza con prestazioni da Grand Prix presto a disposizione dell’un per cento che tanto fa arrabbiare Thomas Piketty. Assieme a una lunga fila di oggetti del desiderio, dalla Maserati Quattroporte alla Jaguar fino alle ultime Porsche, tutte in pieno boom, con tassi di crescita delle vendite a due o tre cifre. Fuori classifica la Ferrari: chi ne vuole una, si metta in coda.
Ma attenzione: il boom delle quattro ruote non è fenomeno riservato ai ricchi. Come ai tempi del duetto di Dustin Hoffman ne “Il laureato” o dell’Aston Martin di James Bond, le macchine del desiderio hanno la funzione delle grandi dive. Chi vuole ma non può, al limite, si accontenta di un sogno di seconda mano: più di 4 milioni e 200 mila pezzi acquistati nel 2014, con un incremento discreto (più 2,6 per cento) a conferma che l’auto resta percepita come una necessità o, comunque un traguardo che, una volta raggiunto con la maggiore età, non si vuol perdere più, nonostante le tasse o l’incubo del parcheggio in città. Negli Stati Uniti, secondo il Wall Street Journal, il boom di vendite di auto usate e truck è la dimostrazione che il “comeback” della classe media è in arrivo: nel 2013 erano stati i jet privati a vedere le loro vendite crescere più rapidamente di tutto il resto, nel 2014 appunto le auto usate.

 

Insomma, la vecchia signora a quattro ruote non ha perduto, come sembrava, il suo fascino. Anzi, i Big del settore sono pronti alla sfida con i nuovi padroni dell’economia in arrivo dalla new economy. A mettere d’accordo tutti potrebbe essere ancora una volta Apple, forte dei suoi 178 miliardi di liquidità, scesa in pista con un progetto fino a pochi giorni fa top secret, ma con una squadra di eccellenza: Luca Maestri, il chief financial officer della Mela che vanta vent’anni d’esperienza in Gm; Eddy Cue, potente responsabile dell’internet software che fa parte del board della Ferrari; e Marc Newson, altro manager di punta nel team di Tim Cook, che a suo tempo sviluppò una concept car per Ford. Alla regia c’è nientemeno che Steve Zadesky, l’uomo che per conto di Steve Jobs ha creato iPad e iPhone. La Mela fa sul serio, come accusa la A123, laboratorio di cervelli della Silicon Valley che ha già avviato una causa contro Apple per aver tentato di “rubare” il brevetto su una nuova batteria e, non meno grave, assunto senza badare a spese cinque suoi ricercatori. Non c’è da stupirsi: la sfida dell’auto è ben più complessa della creazione di uno smartphone. Tuttavia vale la pena di provarci: la leadership nel “mondo delle cose”, più importante del controllo del mondo virtuale, passa ancora dall’auto, motore di tecnologia e di sviluppo, oltre che mito e passione a ogni latitudine.

 

Senza contare che l’automotive a volte è diventato pure il settore trascina-riforme per eccellenza. All’inizio degli anni 2000, in Germania, fu Peter Hartz, dirigente delle risorse umane della Volkswagen, a fare da mentore alle riforme del lavoro e del welfare con il governo socialdemocratico del cancelliere Schröder. In Italia è stato Marchionne, dal 2010, senza attendere il legislatore, a rottamare la contrattazione nazionale facendo votare nelle fabbriche Fiat gli ormai noti contratti aziendali.
Lo stesso Marchionne oggi è convinto che il settore sia alla vigilia di un nuovo round di integrazioni, da cui emergeranno nuovi colossi, forti delle competenze, dei denari e del peso politico necessario per vincere una battaglia fatta per i giganti, che provengano dalla vecchia o dalla nuova economia. La scintilla, ultima sua profezia, l’accenderanno i fondi attivisti, che già si accingono a imporre a Gm di girare agli azionisti la cassa (28 miliardi di dollari) accumulata dopo il salvataggio. A guidare l’offensiva è stato chiamato Harry Wilson, che fece parte della task force di Obama per salvare Detroit. Roba di sei anni fa, ma è passato un secolo. Oggi già si pensa a spartire un pezzo del paradiso a quattro ruote.

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