Mercoledì scorso quattrocentomila persone sono scese in piazza a Buenos Aires per ricordare la morte del procuratore Nisman

Dall'Argentina al Cile, il “partito dei magistrati” mena i governi latini

Angela Nocioni

Gran spolvero di toghe al sud del Rio grande. Non si parla (ancora) di partito dei giudici da quelle parti, ma l'iperattivismo politico dei magistrati è notizia quotidiana nei principali paesi dell'America latina. Non c'è solo il thriller sulla morte del giudice Nisman che sta cambiando la campagna presidenziale in Argentina.

Gran spolvero di toghe al sud del Rio grande. Non si parla (ancora) di partito dei giudici da quelle parti, ma l'iperattivismo politico dei magistrati è notizia quotidiana nei principali paesi dell'America latina. Non c'è solo il thriller sulla morte del giudice Nisman che sta cambiando la campagna presidenziale in Argentina. C'è l'inchiesta sul mensalão prima e quella su Petrobrás poi, che segnano la storia del Partido dos trabalhadores al governo in Brasile. C'è un nuora-gate scoppiato sotto i piedi della presidente Bachelet in Cile.

 

E c'è l'uso strapolitico delle incriminazioni in Venezuela da parte della presidenza della Repubblica, che controlla la Corte suprema e buona parte della giustizia ordinaria. A Caracas il leader dell'opposizione di piazza, Leopoldo López, è in carcere da un anno con accuse fragili. I suoi possibili concorrenti minacciati di fare la stessa fine. Antonio Ledesma, sindaco di Caracas, giovedì è stato prelevato dal suo ufficio da 80 uomini incappucciati del Sedim, i servizi venezuelani e ancora non si sa dov'è finito. Il presidente Maduro l'ha appena additato in diretta tv per aver organizzato un colpo di stato e troverà presto un giudice disposto a tradurre in atti formali l'accusa.

 

Il principale teatro dei giudici d'assalto è però al momento Buenos Aires. Lì, in attesa delle presidenziali di ottobre, con la presidenza Kirchner sul viale del tramonto, mercoledì scorso quattrocentomila persone sono scese in piazza convocate da cinque pubblici ministeri. Quattrocentomila per davvero, il centro città straripava. Se quattrocentomila persone marciano dietro a cinque giudici, sotto un acquazzone torrenziale, dal Parlamento alla presidenza della Repubblica, al grido: "Giustizia, giustizia", il governo trema. Anche se il corteo, senza bandiere, non è convocato per far cadere il governo, ma in memoria di un giudice morto in circostanze sospette.

 

Inizialmente organizzato come "la marcia dei pm contro la morte di Nisman", il corteo di Buenos Aires è subito diventato la marcia contro la presidente Kirchner. Ha portato in strada l'intera opposizione, una ressa di non militanti, pensionati, professionisti. Il cuore dell'antikirchnerismo cittadino, la classe medio alta di Buenos Aires che non è necessariamente conservatrice in blocco, ma detesta il neoperonismo straccione.

 

Tutti parlano ormai di quell'enorme corteo come della "marcha de los jueces", la marcia dei giudici. Alberto Nisman è il magistrato trovato morto a Buenos Aires il 18 gennaio nel bagno di casa sua riverso su una calibro 22, in una pozza di sangue. Tutto farebbe pensare a un suicidio. Tranne il fatto che Nisman, 51 anni e una carriera brillante, era l'uomo più famoso del momento in Argentina. Era stato lui a denunciare formalmente la settimana prima la presidente Cristina Kirchner e il suo ministro degli Esteri, Héctor Timerman, oltre a una serie di funzionari minori, per aver coperto segretamente i mandanti e gli esecutori iraniani della strage del 18 luglio 1994 alla Amia, la mutua ebraica di Buenos Aires, 85 morti, in cambio, ipotizzava il giudice, di forniture di idrocarburi sottocosto. Nisman aveva appena depositato la richiesta di interrogare sia la presidente della repubblica sia il suo ministro. Un suo collega ha raccolto la denuncia e porterà avanti l'inchiesta.

 

Il clima politico intorno alla presidente è mefitico. Cristina Kirchner, dopo essersi precipitata ad accreditare l'ipotesi del suicidio, ha abbracciato l'idea dell'omicidio commesso da una parte deviata dei servizi per screditarla e continua a riferirsi a Nisman – trasfigurato ormai in un simbolo di trasparenza e coraggio nell'immaginario popolare – come si fa con un avversario politico da distruggere, nonostante sia morto e per di più in condizioni tragiche.

 

Il governo è agli sgoccioli. L'impatto di un partito dei giudici identificabile come a lei alternativo, Cristina Kirchner – già debole per la crisi economica e per una gestione disinvolta del potere sempre più difficile da mascherare, e ora anche accusata formalmente di aver coperto gli autori di una strage – non può proprio reggerlo.

 

Eppure a Buenos Aires quasi nessuno parla di partito dei giudici. La Casa Rosada ha liquidato la messa in stato di accusa della presidente come un fatto "senza valore né importanza" che serve solo a provocare clamore nella società, clamore inutile perché Cristina non può ricandidarsi per un terzo mandato consecutivo vietato dalla legge e se ne andrà comunque a casa. L’opposizione parla di "grave situazione istituzionale" e fa notare che anche il vicepresidente, Amado Boudou, è sotto inchiesta accusato di aver truffato lo stato attraverso la stampa di carta moneta. Ma il fatto che uno dei tre poteri dello stato, il giudiziario, sia sceso in piazza fisicamente in aperta contestazione del governo e le conseguenze che ciò comporta, sono oggi materia di schermaglie di propaganda a Buenos Aires, non di dibattito politico.

 

L'evidenza che buona parte del paese si mostri smaniosa di affidarsi al potere catartico di un repulisti della vita politica affidato genericamente ai magistrati, come fossero nuovi super eroi metropolitani, non è oggetto di grandi discussioni. Pare un fatto assodato, ovvio, sul quale non vale la pena riflettere. Se provi a chiedere se sia il caso di raccomandarsi ai tribunali, la risposta invariabilmente è: "Somos un país mafioso, solo en los tribunales se puede resolver el problema".

 

I pochi a tematizzare la questione sono parte in causa, gruppi militanti della base kircherista chiamata a difendere il carrozzone. Le grandi firme del giornalismo argentino non si soffermano sull'analisi della natura della marcia. Ne descrivono il successo, ma non si interrogano su quella testa di corteo composta da soli pm, esortati a prendere in mano la situazione da una intera città che batteva in silenzio le mani al loro passaggio. Nella politica argentina è così di casa l'idea dell'uomo della provvidenza che se quel ruolo se lo prende un giudice si fatica a trovare qualcuno che alzi le sopracciglia.

 

Quindi la critica rimane in mano ai soli militanti governativi, che lo fanno per mestiere. Per esempio Carta abierta, una lista di intellettuali d'appoggio fisso al governo, chiamata "los intelectuales k" che ha addirittura chiesto alla Corte suprema di vietare la marcia perché "è responsabilità storica frenare l'autonomizzazione di uno dei poteri della Repubblica che pone in rischio la vita istituzionale della democrazia". Ma questi intellettuali sono talmente schierati e di solito talmente ciechi agli strappi alla democrazia compiuti dal governo, da non avere nessuna credibilità.

 

Al corteo dei pm sono andati tutti i nemici della presidente e tutti i candidati a succederle, anche se a titolo personale come richiesto dai giudici. Ma c'erano tutti: Mauricio Macri, sindaco di Buenos Aires, di destra, Sergio Massa, l'ex allievo di Nestor Kirchner (marito di Cristina ed ex presidente) diventato il favorito antigovernativo alle prossime presidenziali, la Carriò, il socialista Binner e i numerosi dirigenti peronisti in fuga dal carro governativo.

 

In Brasile il potere dei giudici non è meno spettacolare, ma s'è dimostrato finora molto più efficace. Il Partido dos trabalhadores, Pt, al potere dal 2003, duella fin dal 2005 con inchieste su fondi neri talmente ben cadenzate sui tg della sera con suspense, colpi di scena, tradimenti e passioni, da essere seguite da dieci anni in tv come si segue la telenovela delle venti.

 

Dopo aver tenuto 69 sessioni sul caso delle mazzette agli alleati nel primo governo Lula, il Tribunale supremo ha chiuso il dossier con 24 condanne. Undici alti dirigenti del Pt sono stati sbattuti in galera. Nessuno di loro risulta giudicato per essersi arricchito personalmente, ma per aver, ciascuno a suo modo, gestito la giostra dei fondi neri. E’ stata passata a giudizio l’intera cupola del Pt, quasi tutti quelli che contano tranne Lula e Dilma. Spedito in prigione addirittura il creatore politico di Lula, José Dirceu, uno degli uomini più potenti del Brasile, l’uomo che mise la cravatta al sindacalista Lula fino a portarlo alla presidenza della repubblica.

 

[**Video_box_2**]La mannaia del Tribunale supremo era nelle mani di un ex protetto di Lula e Dilma, Joaquim Barbosa, l’unico giudice nero della storia dell’Alta corte brasiliana. Barbosa, assurto al ruolo di supergiustiziere, è stato di una severità inedita. La sua requisitoria è diventata presto un classico per i suoi toni implacabili. Al Carnevale di Rio per anni la sua maschera è andata più di moda di quella di Batman. Il clima creato attorno al ruolo di angelo vendicatore del giudice nero scagliatosi contro i potenti bianchi corrotti spiega molto del Brasile attuale, al di là della sostanza racchiusa nelle pagine processuali.

 

Sopravvissuto a stento al vortice Barbosa, il Pt s'è trovato nell'occhio del ciclone Petrobrás. Una inchiesta cominciata prima delle elezioni presidenziali dell'ottobre scorso, ma scoppiata solo qualche settimana fa, punta a trascinare di nuovo il governo in tribunale per un sistema di sovrapprezzi pagato da chiunque volesse far affari con l'industria statale del petrolio e usato per finanziare le campagne elettorali di molti deputati, la maggioranza dei quali del Pt. La formazione del nuovo governo, le nomine dei ministri, sono state dettate dalle fughe di notizie sull'inchiesta Petrobrás. Dilma non faceva in tempo a sussurrare il nome di un candidato che se lo ritrovava il giorno dopo sui giornali nelle pagine della giudiziaria di Brasilia. Metodo efficace.

 

Anche la presidente Bachelet in Cile è alle prese con un grosso scandalo. Le imprese della moglie di suo figlio avrebbero ricevuto un credito di 10 milioni di dollari da fondi governativi. Lei smentisce, ma l'inchiesta è tutti i giorni in prima pagina da un mese.

 

Tutt'altro genere di atmosfera regna attorno ai palazzi di giustizia in Venezuela. Lì l'occupazione chavista delle istituzioni ha creato da qualche anno un sistema quasi impermeabile. La Corte suprema e il Tribunale supremo elettorale sono stati bonificati dai chavisti. Il governo è protetto dai suoi giudici e chiunque crei ostacoli politici al governo si ritrova entro breve tempo in tribunale accusato di reati penali gravi.

 

Leopoldo López, leader fascistello della destra di piazza, molto più temibile che il capo formale dell'opposizione, Henrique Capriles, è in prigione dal febbraio dell'anno scorso con l'accusa di aver tentato di provocare una caduta violenta del governo. Non è nemmeno detto che le accuse non siano fondate. L'estrema destra venezuelana spesso è tentata da scorciatoie esplosive e López ha un curriculum da capo-bombarolo di tutto rispetto. Fu lui a capeggiare l'assalto armato all'ambasciata cubana a Caracas nel 2002 e ha più volte chiamato alla spallata armata contro il chavismo. Ma è in galera perché è un temibile avversario politico, non perché aspirante golpista. E c'era una schiera di giudici pronta a firmare il suo ordine di cattura.