Il presidente amerciano Barack Obama (foto LaPresse)

La colpevole inadeguatezza di Obama

Il mondo in fiamme guarda altrove. L’America è una superpotenza ma non si comporta più come tale

New York. Sarà anche vero, come dice Barack Obama, che “quando ci sono dei problemi non chiamano Pechino, non chiamano Mosca, chiamano noi”, ma nell’attuale ingorgo di crisi regionali e globali il telefono dello Studio ovale non sembra poi così occupato. A forza di chiamare senza ottenere nulla gli interlocutori si sono persi d’animo, e scorrono la rubrica in cerca di appoggi più sostanziosi. Quando il mondo ha visto il filmato in cui ventuno copti vengono decapitati su una spiaggia vicino a Tripoli, a trecento chilometri scarsi da Lampedusa, da uomini neri dello Stato islamico, il mondo istintivamente si è girato verso il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi in cerca di una risposta, di una reazione. Mentre le cancellerie occidentali accendevano i computer per stendere le rituali dichiarazioni di solidarietà, i caccia del Cairo si sono alzati in volo per colpire i campi di addestramento nella dépendance libica dello Stato islamico e il ministro degli Esteri è partito per New York, dove ha fatto pressione per una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sisi, lo ha chiarito martedì in un’intervista alla radio, considera l’ipotesi di una coalizione internazionale legittimata da un mandato dell’Onu la soluzione preferibile per affrontare la crisi. E’ stata la Francia, in qualità di membro permanente del Consiglio, a presentare la richiesta egiziana. Quando un ventiduenne danese di origini palestinesi ha sparato a una manifestazione sulla libertà di parola, uccidendo una persona, e poi ha fatto lo stesso davanti alla grande sinagoga di Krystalgade, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha subito offerto asilo agli ebrei danesi che si sentono minacciati in patria, mentre Washington ha offerto condoglianze senza riferimenti che potessero urtare la sensibilità religiosa dell’uditorio. Su Facebook il terrorista di Copenaghen aveva dichiarato la sua fedeltà allo Stato islamico.

 

La settimana scorsa a Minsk a trattare una tregua – mai messa in atto – per conto dell’occidente con Vladimir Putin c’erano Angela Merkel e François Hollande. La stessa, tragica spedizione in Libia è stata realizzata largamente con mezzi e logistica americana, ma la trazione politica era anglo-francese, e la Casa Bianca ha fatto di tutto per lasciare a Londra e Parigi i meriti di un’operazione che ha trasformato un regime stabile e sanguinoso in un failed state dove gruppi armati decidono di affiliarsi al più prolifico network del terrore in circolazione. Dopo la strage nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, decine di leader mondiali hanno sfilato a braccetto per mostrare l’unità dell’occidente e non solo di fronte alla minaccia terroristica. Non è una marcia di capi di stato contriti che cambierà l’inerzia dello scontro di civiltà, e un certo grado di retorica può anche legittimamente infastidire, ma la leadership si esercita anche con il linguaggio dei simboli, con i gesti convenzionali e le photo opportunity. Il semplice esserci manda un segnale. E Obama non c’era.

 

Sulla madre di tutte le minacce odierne, il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi, Obama ha insistito fino allo sfinimento sul carattere multilaterale dell’iniziativa, portata avanti da una coalizione di nazioni non esattamente volenterose ma momentaneamente unite da una convergenza di interessi. A metà gennaio l’Institute for the Study of War di Washington ha calcolato che dopo oltre 800 strike aerei lo Stato islamico “non ha perso terreno” in Siria e anzi ha ampliato le aree che controlla, aggiungendo migliaia di persone alla popolazione che vive sotto la bandiera nera. Il modello di controterrorismo che Obama usava per garantire che la guerra dall’alto avrebbe funzionato era, ironia tragica, quello applicato in Yemen.

 

Non chiameranno Pechino e Mosca, quando ci sono dei problemi, ma a forza di risposte vaghe e inadeguate ormai non si perde nemmeno troppo tempo a mendicare la protezione del leader del mondo libero. Meglio evitare la disillusione e industriarsi con altri canali di leadership. I ribelli siriani hanno aspettato invano per anni l’aiuto americano, mentre Bashar el Assad infrangeva impunemente tutte le linee rosse tracciate da Obama e scandalizzava la coscienza di John Kerry con le sue “oscenità morali”, ma giusto per lo spazio di una dichiarazione ad alto coefficiente emotivo. Appena Putin ha offerto una fragile scappatoia diplomatica, la Casa Bianca l’ha presa al volo.

 

I manifestanti iraniani hanno visto naufragare in piazza una rivoluzione che da Obama ha ricevuto una sentita pacca sulla spalla, senza conseguenze palpabili, e un recente saggio di Michael Doran sulla rivista Mosaic mette la riluttanza nel contesto della strategia della mano tesa agli ayatollah. Per anni sembrava che una strategia non ci fosse proprio, che fosse tutta un’improvvisata giustapposizione di reazioni agli eventi, un cabotaggio tirato avanti con calcoli di breve respiro, invece una strategia c’era, semplicemente le manifestazioni di piazza non ne facevano parte. Anche se i ragazzi iraniani – e poi egiziani, tunisini, siriani, ucraini ecc. – erano dalla parte giusta della storia, s’intende. Sull’invio di armi pesanti all’esercito ucraino “non ho ancora preso una decisione”, ha detto Obama poco prima che Kiev perdesse anche Debaltsevo. Il Pentagono è incline al sostegno militare, il dipartimento di stato spinge per l’intervento, i paper di autorevoli think tank tendono a dimostrare la fattibilità dell’operazione, ma Obama è “his own man”, come si dice, ha pensieri e calcoli che sono soltanto suoi.

 

Dopo i fatti di Parigi e l’incidente del mancato viaggio di solidarietà presidenziale, Obama ha detto che avrebbe contribuito in modo effettivo alla lotta al terrorismo con un convegno sul contrasto all’“estremismo violento” (questa la dicitura ufficiale) già programmato, e iniziato martedì. L’idea, almeno così pareva, era che il convegno a porte chiuse, al quale sono invitate delegazioni di decine di paesi, fosse calibrato sulle minacce odierne, ma lunedì i funzionari dell’Amministrazione hanno spiegato ai giornalisti che forse c’era stato un fraintendimento: non si parlerà solo di terroristi “a sud di Roma” e dentro le periferie delle città europee, non di Charlie Hebdo e dell’attentatore di Copenaghen né del fanatismo islamista che li unisce, ma il discorso riguarda innanzitutto le minacce che si sviluppano all’interno: “Attraverso presentazioni, tavole rotonde, interazioni fra piccoli gruppi i partecipanti studieranno le strutture dello stato a livello federale e locale per capire e prevenire meglio il ciclo di radicalizzazione della violenza negli Stati Uniti e all’estero”. Di fronte alla domanda sul rifiuto dell’Amministrazione di sottolineare la componente islamica che lega l’ultima striscia di episodi di terrorismo, un funzionario ha spiegato che “le prove non indicano che una particolare comunità sia incline alla violenza” e come esempio portano le Farc. Molta enfasi sulla radicalizzazione via social network, sul terrorismo disintermediato e sui metodi uguali e contrari dell’Amministrazione per conquistare “cuori e menti”, come ha scritto Obama sul Los Angeles Times, di terroristi e aspiranti tali. La Casa Bianca  annuncia nuovi investimenti sui social media per contrastare un nemico che ha molta familiarità con i nuovi linguaggi, il sottosegretario del dipartimento di stato Richard Stengel garantisce che si può fare: “Questi non sono mica BuzzFeed, non sono invincibili sui social media”. Quando ci sono dei problemi non chiameranno Pechino e Mosca, manderanno un tweet all’Amministrazione, e uno stagista della Casa Bianca indicherà l’hashtag giusto da utilizzare.

 

Ormai la prudenza, l’inazione internazionale sono il corollario strategico di un assunto ideologico intorno al mondo multipolare, senza guida o direzione. La storia è ricominciata, i politologi non parlano che della contrazione del momento democratico e dell’avanzata di potenze efficaci a conduzione non democratica, gli anni Novanta sono un lontano ricordo per internazionalisti sognanti, l’ordine mondiale non è più quello di una volta – Henry Kissinger sostiene che si è perso il concetto stesso di ordine – e non c’è posto per la superpotenza americana perché non c’è posto per distinzioni morali tranchant. Il paradigma vigente alla Casa Bianca è quello del realismo cristiano di Reinhold Niebuhr. Nessuna società è innocente, diceva il teologo protestante, nemmeno quella illuminata della “city upon a hill”, il mondo è una scala di grigi morali, occorrono lavoro ed energia per esercitare l’arte del discernimento e certo l’avventurismo unilaterale su scala globale non s’attaglia alla natura dei rapporti fra le nazioni. In un bel saggio intitolato “Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale”, il ricercatore dell’Università Cattolica Luca Gino Castellin ricorda che nella concezione niebuhriana “il paradiso – sempre precario e instabile, oltre che raggiunto con estrema fatica – della sicurezza domestica è sospeso in un inferno d’insicurezza globale”. L’orizzonte di Obama è il paradiso della sicurezza domestica, mentre là fuori l’inferno dell’insicurezza globale va gestito con accorti piani multilaterali, senza eccessi. Ross Douthat sul New York Times ha sottolineato l’aporia dell’Obama niebuhriano: il realismo nella conduzione degli affari internazionali cozza con il moralismo progressista che impone una rappresentazione della storia con due lati, uno giusto e uno sbagliato; a parole il presidente del mondo libero da che lato volete che si schieri?

 

Molta teoria, poca pratica

 

“Siete ancora una superpotenza, ma non sapete più comportarvi come tale”. David Rothkopf ha raccolto questa frase da un diplomatico mediorientale di un paese alleato degli Stati Uniti per il suo libro “National Insecurity”, ed è una buona sintesi dell’inadeguatezza delle misure di Obama per domare i fuochi globali. La superpotenza è intatta, anzi, è in costante crescita. L’America ha l’esercito più grande del mondo, un sistema economico resiliente che ha superato la crisi in cui l’Europa è ancora invischiata, corre verso l’indipendenza energetica, ha un settore tecnologico “disruptive”, crea lavoro, produce idee e merci, è flessibile e in grado di reinventarsi. Quando deve esporre in teoria questi concetti, Obama è il più orgoglioso degli eccezionalisti, un appassionato lettore dei saggi di Bob Kagan. Nella pratica, però, il trucco si vede: “Non sapete più comportarvi come tale”. Dall’Ucraina alla Libia fino a Parigi e Copenaghen, passando per Mosca e Damasco, tutti ripetono lo stesso concetto secondo declinazioni differenti.

 

[**Video_box_2**]Questa settimana l’Amministrazione ha autorizzato la vendita di droni armati a paesi alleati. C’è voluta una review di due anni per arrivare a una decisione significativa dal punto di vista del messaggio politico: il presidente permette, e anzi incoraggia, ai paesi che passeranno una rigorosa selezione di dotarsi della sua arma di controterrorismo preferita, pulita e senza boots on the ground, così da smarcarsi dall’indipendenza americana quando si tratta di strike mirati. E’ un mondo a responsabilità americana limitata, quello di Obama, ma se soltanto Washington ha la potenza tecnologica per esercitare il controllo è difficile che il senso di corresponsabilità degli alleati cresca. Anche il disegno di legge per autorizzare l’uso della forza militare contro lo Stato islamico che la Casa Bianca ha proposto riflette il senso di disimpegno di Obama. Il commander in chief non ha bisogno di una legge per muovere guerra al nemico, ma lo strumento legale serve a fissare limiti temporali e geografici, superati i quali il presidente può metterla giù così: potrei usare i miei poteri presidenziali per sradicare lo Stato islamico, ma esiste una legge approvata dai rappresentanti del popolo che suggerisce di limitarsi, violarla pare brutto. A meno che la minaccia dell’inferno globale non metta in pericolo direttamente il paradiso domestico.  Un’eventualità del genere cambierebbe i calcoli. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice, lo ha detto chiaramente presentando il documento strategico quadriennale: né lo Stato islamico né la Russia né Boko né altri orrori odierni sono minacce esistenziali per l’America. Non chiameranno Pechino o Mosca, quando ci sono dei problemi, ma chi chiameranno?

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