E' ora di trovarci un nome per capire chi siamo (e crociati non va bene)

Giovanni Maddalena

Che cosa c’entra il linguaggio con la guerra allo Stato islamico. Un paio di giorni fa alla definizione del ministro Gentiloni come “crociato” qualcuno ha detto: “Un signore così perbene…”. E i post più o meno ironici sui crociati “de noantri” si sprecano.

Con lo Stato islamico c’è anche una questione di nomi e di filosofie del linguaggio. Forse non sembra la questione più grave, ma se uno la sottovaluta il pericolo aumenta. Un paio di giorni fa alla definizione del ministro Gentiloni come “crociato” qualcuno ha detto: “Un signore così perbene…”. E i post più o meno ironici sui crociati “de noantri” si sprecano. La verità è che a noi sembra che si tratti di nomi vuoti, frutto di fanatismo, che servono solo per pochi, ma che non hanno nessuna capacità di cambiamento. Temo sia ormai storia la sfortunata battuta di Obama che, alla dichiarazione del califfato, aveva detto che a una squadra di college non basta mettersi una maglietta per diventare una squadra da Nba. Quando la settimana scorsa Mr. President ha dovuto chiedere qualche miliardo di dollari per fronteggiare la squadra di college, forse si sarà ricordato dell’infelice frase. Non so però se si è accorto del problema che ci sta sotto.

 

Già, perché sotto la frase di Obama c’è la convinzione del nostro razionalismo occidentale che i nomi non abbiano alcun potere sulle cose. Così, all’autoproclamazione del Califfato, Obama ha potuto snobbare la questione; allo stesso modo molti si sentono semplicemente estranei o straniti dall’essere chiamati crociati.

 

Purtroppo per noi, invece, i nomi – e la comunicazione in generale – funzionano in modo un po’ più profondo e complesso. Tanto per cominciare, i nomi, in particolare i nomi propri, portano una storia. “Califfato” ha un significato preciso e, se Obama l’avesse studiato, avrebbe cominciato a preoccuparsi in tempo. Anche “crociato” si è caricato di un significato tale da identificare nell’islam il nemico che viene ad attaccarmi, legittimando così e giustificando religiosamente la difesa armata (anche quando è un attacco). Ma non è solo questione di conoscenza: i nomi hanno un potere affettivo. Si pensi a che cosa voglia dire ripetere il nome della persona amata (o persino della squadra di calcio amata). Florenskij, uno dei più grandi pensatori del Novecento, diceva che alla fine ciascuno tende a diventare il suo nome e che le parole hanno un potere magico, evocativo. Nomen-omen. Il nome è segno del destino: non vuol dire che lo predetermina, ma che l’uomo, che impara più dall’esterno che dall’analisi interiore, tende a identificarsi affettivamente con il modo con cui viene chiamato e chiama se stesso.

 

Purtroppo, è in virtù di questi poteri del nome che i sistemi ideologici creano il nemico oggettivo. Un nome comune come “ebreo” o “kulak”, cioè contadino benestante e proprietario di terreni, viene caricato di una storia descrittiva – anche fisica, ovviamente: i cattivi sono sempre brutti – e di un’interpretazione simbolica vaga: manipolatore, menzognero, sfruttatore, eccetera. Da quel momento in avanti il potere del nome farà sì che un nome comune venga utilizzato solo in virtù della sua connotazione implicita (semioticamente, si tratta di una indicalità pura) serva come strumento sintetico per dire tutte quelle descrizioni e tutte quelle interpretazioni senza poterle più vagliare criticamente. Così “ebreo” o “kulak” è diventato un insulto ed è stato sufficiente per creare – ed eliminare – il “nemico oggettivo”, come diceva Hannah Arendt, ossia la categoria che è nemica non per quello che fa ma per quello che è.

 

Il nostro nominalismo, che li considera etichette ininfluenti, è un’ingenuità che ci fa cadere nelle definizioni altrui. I nomi vanno presi sul serio e occorre rifiutarli o abbracciarli consapevolmente. Da questo punto di vista non penso che “crociati” e l’emotivo “#jesuischarlie” siano delle buone idee. Forse è ora di trovarci un nome, magari capiremo anche chi siamo.

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