Alcune foto di propaganda dello Stato islamico a Nawfaliyah, in Libia

Cinque punti sulla guerra in Libia

Redazione

Un paese diviso tra est e ovest, con due Parlamenti e due premier ma dove in realtà a comandare sono le milizie locali. Ecco perché lo Stato islamico guadagna terreno e qual è il suo reale peso nel conflitto.

1. Chi comanda in Libia (in teoria)

 

Dopo il rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi nel 2011 la Libia si è spaccata in due parti. A est (Cirenaica) c’è il Parlamento di Tobruk con a capo Abdullah al Thini, eletto nel giugno 2014 e l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale. Include forze prevalentemente laiche e vecchi membri del regime; a ovest (Tripolitania) c’è il Consiglio nazionale libico dove la maggioranza è composta dagli islamisti. E’ guidato dal premier Omar al Hassi ed è basato a Tripoli. Ciascuno dei due Parlamenti ha un esercito: nell’ovest ci sono gli uomini della cosiddetta “Alba della Libia” che dicono di rispondere agli ordini del Parlamento di Tripoli, quello degli islamisti. A est invece, oltre all’esercito regolare libico, ci sono i militari guidati dal generale Khalifa Haftar (qui si parla del generale freelance e della sua guerra agli islamisti in Libia). 

 

2. Chi comanda in Libia (in pratica)

 

In realtà in Libia il potere è nelle mani di una galassia di milizie (thuwar), alcune delle quali hanno combattuto contro Gheddafi nel 2011 rovesciandone il regime. I componenti di buona parte di questi gruppi sono uniti tra loro da legami tribali e per questo sono fortemente radicati a livello locale.

 

3. Perché si fanno la guerra

 

Le due tribù di riferimento sono quella di Misurata (vicine agli islamisti) e quella di Zintan (alleate di Haftar). Durante la guerra contro Gheddafi erano alleate. Poi hanno cominciato a farsi la guerra per prendere posizioni di potere nel nuovo governo. La religione c’entra poco. Nel 2013, dopo una tornata di elezioni parlamentari, gli islamisti hanno occupato con le armi i ministeri per costringere il Parlamento eletto a votare a favore di una legge che bandiva il ritorno in politica degli ex membri della dittatura. Lo scopo era quello di togliere di torno i propri avversari politici e di poter controllare la redistribuzione tra le tribù dei guadagni provenienti dal petrolio. Da allora, la guerra si svolge soprattutto attorno ai pozzi petroliferi del paese.

 

4. Cosa c’entra lo Stato islamico.

 

Lo Stato islamico attecchisce facilmente nei paesi che hanno un vuoto di potere e dove è più facile trovare armi (come in Siria o in Iraq). La Libia è il posto ideale per estendersi ancora. Anche perché i due gruppi armati che si stanno combattendo sono più impegnati a farsi la guerra tra loro piuttosto che a combattere lo Stato islamico. Nonostante la loro campagna propagandistica, gli uomini del califfo in Libia sono pochi (non si conosce il numero esatto). Finora lo Stato islamico ha un ruolo marginale e preoccupante allo stesso tempo: marginale perché controlla solo alcuni quartieri della cittadina costiera di Derna e di Sirte (dove ha preso il controllo di radio e tv mandando in onda messaggi che incitano al jihad); preoccupante perché la loro intenzione è quella di creare un vero sistema di governo basato sulla rigida applicazione della sharia nei territori che conquistano a poche centinaia di chilometri dall’Europa.

 

5. Quali sono davvero i rischi per l’Italia

 

Nonostante le minacce lanciate dallo Stato islamico (anche in occasione del video con l’esecuzione dei 21 egiziani copti) l’Italia non rischia un aggressione militare da parte dello Stato islamico. Gli uomini del califfo non posseggono missili capaci di superare il Mediterraneo né di un’aviazione. Sul fronte degli sbarchi degli immigrati clandestini, ad oggi, è difficile dire se lo Stato islamico abbia influito sull’aumento degli arrivi delle carrette del mare sulle nostre coste (3,500 persone solo a gennaio, oltre il 60 per cento in più rispetto agli sbarchi del gennaio 2014).

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