Le prostitute parigine di Henri de Toulouse-Lautrec: “Il sofà”, 1894-’96 (New York, Metropolitan Museum of Art)

Lì stanno e lì staranno

Belle e tante, viva Roma e le sue inestirpabili puttane

Stefano Di Michele

Sopravvivono nella storia della Città Eterna meglio dei gladiatori. E meglio degli dèi hanno superato i secoli. Il sindaco Marino vuole relegarle all’Eur, ma l’impresa non è riuscita nemmeno ai Papi. La Cabiria felliniana andava in processione al Divino Amore a chiedere la grazia: “Madonna mia, famme cambia’ vita…”

Figurarsi. Lì stavano. Lì stanno. Lì staranno. A bordo strada – di ogni strada, nell’ombra di una fratta, lungo la scalinata che alla chiesa conduce, sul bordo della pineta. Quasi dentro il portone di casa, sulla statale tra il nulla e il brullo. Patetiche, con studiata oscenità buttate sul cofano di una macchina – il dito medio verso il cronista che scruta, il bullo che insulta, il cliente dai pochi euro. Come uccelli feriti sul fondo della gabbia, certe piccole romene gonfie di botte e tremori, grigie e rannicchiate sul marciapiede. I trans come vocianti cocorite che alzano ali fucsia e turchesi, simili ai parrocchetti che hanno invaso il cielo di Roma, trampolieri sguaiati su vertiginosi tacchi dorati – “alle mie natiche un maschio s’appende”, tale e quale la Princesa di De André, fosse l’avvocato di Milano o lo statale di Roma. Le nigeriane di scuro luminoso pure sotto la luce del sole, superstizioni voodoo (il cuore crudo di una gallina appena sventrata ingoiato: così certe cronache raccontano) e maman schiaviste, che sui treni pendolari vanno e vengono, sfinite sulle granitiche cosce. Le cinesi economiche – ah, la bella economia orientale, su certi forum persino della convenienza e della qualità del pompino giallo volgarmente si discute, il fondo virtuale di rutto e sperma e saggio risparmio, che oggi c’è crisi, si sa. Lì sono sempre state, a Roma. Lì sempre saranno, a Roma. Pure quando erano solo, nell’immaginario, la mite Cabiria felliniana che al Divino Amore andava in processione a chiedere la grazia, “Madonna mia, Madonna mia, famme cambia’ vita…”, ma la vita faceva sempre schifo, ogni giorno fa schifo la vita – la Madre di Dio aveva occhi in alto, troppo in alto, non li calava giù lungo la passeggiata archeologica, e Cabiria restava, sola col suo ombrellino ridicolo e il vestitino dignitoso sotto la pioggia e contro il destino. O la Mamma Roma di Anna Magnani, che pensava di venirne fuori, e cantava felice, “fiore de’ merda / me so’ liberata da ’na corda!”, e invece la corda il collo non finisce mai di stringere – ed è fiore carnivoro che ti divora la faccia e l’anima, er fiore de’ merda. O il buon poliziotto Totò, agente Antonio Caccavallo, che di Carolina beccata in una retata a Villa Borghese s’invaghisce, e molti guai con la censura il film ebbe – essendo la censura cosa stupida e cosa ottusa assai, vedeva “decoro e prestigio delle istituzioni” messi a rischio: che può forse mai, uno sbirro dal gran cuore, aver sentimenti per una poveretta (manco puttana in realtà era) dal cuore in frantumi? E proprio la Magnani – meravigliosa Lupa che nelle notti di Roma andava a sfamare i gatti randagi, e i cani portava a spasso a Villa Borghese, proprio lì ove nella retata Carolina finì, e con le battone al lavoro scherzava e rideva – ché ha sempre avuto, si sa, la mignotta l’occhio più vigile (se non nero per colpa di qualche stronzo) e la mente più arguta della buona massaia casalinga.

 

Le notti di Roma sono sempre state così – pure quando la Nigeria era solo esotico posto lontano come le terre del Prete Gianni e le romene stavano dietro il Muro e le cinesi sotto la Grande Muraglia. Roma ha sempre fatto tutt’uno con le sue puttane – come certi animali mitologici, certe forme di vita impensabili e oscure che ogni evoluzione passano e sorpassano: c’erano prima di Dio e di Giove e di Roma stessa e del Colosseo, di Romolo e del Papa e dei barbari. Da Acca Larentia, mignotta pare confinante etrusca, alla Lupa che i due gemelli fondatori allattò – ché da zinne di mignotta, perciò, vennero le prime gocce di latte che Roma bevve. Lì stavano, prima che l’aratro il nobile solco scavasse, come i gatti e come il Tevere, figurarsi se ora le circoscrive il sindaco o la questura o i buoni preti da strada. E infatti. L’altro giorno si sono attruppati quelli del Pd per mormorare (per dire – per carità; per far sapere – non sia mai; per significare – ma cosa dice, signora mia?) quello che sul mignottificio a cielo aperto dell’Eur c’era da dire. Perciò, macché “zoning” – pur mascherato sotto l’anonima “area di mediazione sociale”, manco fosse un convegno di sapienti anziché uno smercio di pompini e affini – e via piuttosto con l’alto impegno, “si riparte dalle politiche sociali” (ah, vabbè, allora), e l’altissimo lamento con testo da serata sanremese, “la prostituzione è un fenomeno che non va governato, ma contrastato” (pensa tu, che vertigine). Qualche anno fa, un altro sindaco ci provò, con apposita ordinanza – una gridolina manzoniana – per disposizione alla massima vigilanza su relativo “abbigliamento indecoroso e indecente”, motivo “di distrazione per gli utenti della strada e causa di frequenti incidenti stradali” (accecamento preventivo, rispetto a quello successivo causa ripensamento della visione?). Che poi, vai a distinguere tra quella che batte sulla consolare e quell’altra che va solo a spasso per fatti suoi, essendo anzi a volte, stando lo standard minimo del vestiario per le vie della capitale, casomai necessario invocare buongusto e sobrietà dalle mignotte operanti – ché persino il sindacato dei vigili ebbe acutamente modo di notare: “Qualunque ragazza in abiti succinti in giro per Roma da oggi è a rischio: chi dirà quanto corta deve essere una gonna per manifestare l’intenzione di adescare?”. E’ passata alla cronaca la pubblica lamentazione di un meccanico ventitreenne, si suppone a vocazione moderata, sorpreso col piccolo pistone fuori officina: “Ahò, ma io che c’entro, sono loro che ci stanno! Non voterò più Alemanno!”. La lotta all’ormone (insieme a quella alla maleducazione, e nel caso della prostituzione romana spesso i due elementi si sommano, non essendo certo minore la maleducazione dei clienti da quella delle mignotte), che va dove vuole e quando crede pulsa, è lotta al più invincibile e incontrollabile e inafferrabile dei nemici.

 

Che scivola, s’intrufola, fa sortite a sorpresa – e sempre in più strade “le macchine puntano i fari / sul palcoscenico della mia vita”. Ora il groviglio quadrato dell’Eur – a ventennale del fascio (molto macho e però già moscio, già allora pronto allo schianto) marciante edificato, luogo quasi metafisico dovuto al genio dell’architetto Marcello Piacentini, di bianchi marmi e chiari travertini – sussurra e sussulta, urla e orgasmi, preservativi (a corona pure intorno alla statua del Mahatma, ovviamente a piazza Gandhi) e fazzoletti a semina a pioggia a coriandoli. “Proteggere la famiglia!”, dice giustamente il sindaco; a volte dal capofamiglia, a voler valutare compiutamente il fervore del mercato. Diciotto strade del quartiere, ha raccontato il volenteroso capo del municipio, Andrea Santoro, “in cui la prostituzione viene esercitata alla luce del sole”. “Ogni cento metri ce n’è una”, precisa la signora con i nipotini da portare a scuola. Raccontano che le nigeriane scivolano verso la Laurentina, che quelle dell’est presidiano le zone centrali, che a via dei Primati sportivi si trova il meglio, che sotto il fungo dell’Eur, dove una volta il fighettismo un po’ fascio del quartiere si adunava, ora spopolano i trans. Su per le scale di viale Tupini. I santi Pietro e Paolo, nei pressi della basilica, non pochi delitti di carne vedono commettere. Il laghetto. Il Palazzo dello Sport. Il Palazzo dei Congressi. I siti si sbizzarriscono: a viale Australia quelli che arrivano alle prime luci dell’alba, a viale Libano i trans che giungono al calare delle ombre, su poltrone di vimini sistemati – ogni bivio, ogni traversa un labirintico annaspare. Sul Messaggero, articolo su un sito che dava conto (con certo orgoglio, diciamo così, locale) del proliferare della vispa fauna: “L’Eur è sempre più il quartiere delle mignotte: ce ne sono per tutti i gusti, per tutte le tasche, a tutte le ore – del giorno e della notte – e in molte strade del quartiere. Basta farsi un giro e sicuramente troverete di che essere soddisfatti. Ma forse tutto questo non è poi così male. In un periodo di grave crisi come quello attuale…” – compreso l’indotto, vien da pensare, di puttan tour e pagnottelle e birre.

 


 

 

Che a volerla poi dispiegare davanti, ad aprire per intere le ali della città delle mignotte – a seguir tracce di qualche retata, di multe elevate (il solito pantalone abbassato, la solita surreale motivazione: stavo solo chiedendo un’indicazione stradale; pieno di sbadati della toponomastica) – è come una fitta ragnatela che ogni quartiere avvolge, dal primo all’ultimo, Eur e non solo Eur, così che a volte intrepidi cronisti si mettono in marcia di notte (a volte peraltro in affollato corteo: se c’è il pattuglione degli sbirri, se c’è il puttan tour del dopo pub, la fitta clientela stretta tra arrapamento e contrattazione) e stendono mappe ove tanto la specialità quanto l’esatta quantità trovano esatta sistematicità. “Sono tornate. Più di prima. Ora si prendono anche il centro, oltre alle arterie periferiche…” (Repubblica). Caracalla, ore 23, sono 21. Viale Baccelli, 7 – “una, sdraiata sul cofano di una macchina come un felino, si mette in mostra per offrire coccole a caro prezzo” (coccole – sempre nella testa che torna a De André, “diecimila lire per sentirti dire micio bello e bamboccione”). Passano le ore, passano i chilometri, passano le voglie. Cristoforo Colombo 42 lucciole, a viale Marconi 34, “per ogni gusto”, a viale Palmiro Togliatti 46 a dir poco (e come si fa a dar conto pure di quelle, all’una e un quarto di notte, in fratta o in macchina in operosa attività?), “romene, albanesi, africane, sudamericane”, e in zona ex mattatoio, piazzale Pascale, i trans, “sono tantissimi, almeno 27”. La Tiburtina, 15 a Settebagni, là sulla Salaria, aeroporto dell’Urbe, figure sorgono dal canneto di fronte agli studi Sky: sempre oltre, fin dove le strade della città si mutano in sterpaglie e deserti e assenza di luci e persino rumori – pure lì stanno, lucciole non pasoliniane che loro sì resistono. Al gelo e all’acqua fredda che ghiacciano cosce e tette e culi, e lingue che si muovono rapide fuori dalle labbra, pronte a calarsi in basso una o cinque o dieci o venti volte a notte, e magari invece ricevere per un istante la carità e la carezza di una goccia di pioggia dal cielo, anziché altro, sempre altro: da bravi ragazzi, bravi padri, encomiabili pilastri della comunità condominiale, sempre il maschietto omega piuttosto che il maschio alfa. Si è provato a fare i conti, quasi tre anni fa – il sindacato di polizia Silp-Cgil ci provò, disse che “a Roma le prostitute sono almeno seicento, sono almeno centocinquanta in più di due anni fa”, e forse dieci o forse undici milioni al mese i soldi che circolavano, tra quelle mani e quelle bocche frettolose…

 

Seicento, poi? Sono dunque le mignotte a Roma meno delle chiese, che arrivano a novecento? Magari. Sorridono, alla Questura di Roma. Qualcuno mormora: “Migliaia, migliaia…”. Di prostituzione si occupano al secondo piano, lì dove c’è la squadra mobile, seconda sezione, là dove c’è il vicequestore aggiunto Alessandro Scarpello. Di storie, nei pochi anni che ha passato qui (dove c’era la Buoncostume di celebrità letteraria e filmica – fu “La poliziotta della squadra del buon costume”, in un non indimenticabile filmetto anni Settanta, persino Edwige Fenech – e che oggi si chiama Criminalità straniera e prostituzione) ne ha viste parecchie. Di puttane allegre, e persino ottimiste e di sinistra, geniale invenzione musicale di Dalla, però nessuna. Se stranieri e prostituzione stanno insieme, là in questura, è perché straniere sono quasi tutte le prostitute che affollano le strade romane (e nazionali). “Non diamo mai giudizi morali – dice con saggezza Scarpello –. Per noi una cosa è semplicemente legale o illegale”. Ecco cosa dal suo ufficio vede: “Quelle italiane sono quasi tutte in casa, è un fenomeno diverso, magari qualche vecchia gloria dalle parti di Tor di Quinto. In strada soprattutto romene, facilitate dopo l’ingresso della Romania in Europa che permette loro una libera circolazione, alcune ucraine, moldave… Una grossa fetta è rappresentata dalle centroafricane, soprattutto nigeriane. Poi ci sono le cinesi, organizzate anche attraverso una sorta di call center per evitare i controlli della polizia, spesso con i loro centri massaggi, e le sudamericane…”. Poi, sono storie molto diverse, non solo da donna a donna, ma persino da etnia a etnia – un diverso fondo d’orrore dietro l’approdo per tutte al marciapiede. “Per quanto riguarda le nigeriane, c’è spesso una connivenza dei genitori con gli sfruttatori che le portano in Italia. Dalla Nigeria affrontano un viaggio fino alla Libia, dove poi passano mesi in certe case gestite dai libici, in condizioni di schiavitù. Poi l’approdo in Italia, il Cie… Hanno tutte dei numeri di riferimento, dei contatti… Forse loro spesso non sanno che dovranno fare le prostitute, ma le famiglie di origine lo sanno benissimo… Ci è successo di intercettare la disperazione dei loro parenti, dalla Nigeria, se per caso qualcuna di loro riesce a fuggire… Sono legate per sempre al debito contratto per farle venire qui, a certi riti voodoo che alla nostra cultura possono sembrare incredibili, sorvegliate dalle maman…”.

 

Spaventate viaggiatrici continentali, schiave senza harem e senza letteratura e senza redenzione, una volta che cominciano a battere le nigeriane diventano accanite frequentatrici di treni regionali (su questi treni, certi fecero la bravata di spruzzare il ddt in loro presenza). “Possono fare ogni giorno anche sessanta, cento, duecento chilometri – spiega Scarpello – Magari da Pomezia vanno a prostituirsi a Maccarese, poi tornano indietro…”. Le famiglie… Lo sbirro ha un sorriso amaro: “Anche se dovessero mandare solo cinquanta euro al mese alla famiglia in Nigeria, con quei cinquanta euro lì sopravvivono”. Altra è la storia delle romene. Ostaggio di bande, prigioniere di uomini violenti che le picchiano, fidanzati e sfruttatori insieme. “E’ come fossero abituate a essere maltrattate… Loro sono più controllate, spesso la macchina con i loro sfruttatori passa e ripassa nel luogo dove battono, controllano che non facciano troppa amicizia con i clienti o con altri romeni… Ecco, quello sulle nigeriane è un controllo quasi più psicologico, nella loro riduzione in schiavitù, mentre quello sulle romene più fisico, costante… Abbiamo sempre registrato la presenza di gruppi pure familiari che gestiscono gruppi di prostitute: a volte venti, a volte magari solo tre…”. I soldi, un fiume di soldi, una cascata di soldi che dal cliente puttaniere solo sfiorano le puttane, per finire quasi tutti nelle tasche del bastardo che le sfrutta. “Posso dire che mediamente una prostituta porta fino a cinquecento euro al giorno, e guarda che mi sto tenendo basso, e non ci sono né domeniche né giorni di riposo… Abbiamo avuto il caso di due ragazze romene molto giovani, molto cariche, che portavano fino a ottocento, novecento euro al giorno… Perciò, se uno sfruttatore ne ha anche solo due o tre a disposizione, è sistemato…”. Le famiglie? Ah, le famiglie… Di quelle nigeriane si è detto. E quelle romene? “E’ vero che spesso queste ragazze sono ingannate con la promessa di un lavoro onesto… A volte la famiglia d’origine non sa niente, e torna a riprenderle appena può, a volte c’è un’assenza completa, in molti casi delle situazioni borderline…”.

 

Il groviglio è tale, che pure quello ormonale supera. “Durante l’attività investigativa, magari ci capita di trovare nigeriane con telefoni di cinesi che hanno la sim di romene… A volte succede anche di avere con loro un buon rapporto, soprattutto se ci accorgiamo che sono ragazze che vorrebbero uscire dal giro, fuggire da quella vita, provare a cambiare… E sono per noi, comunque, sempre occhi aperti sulla strada: come il venditore bengalese che sta ventiquattr’ore al giorno nella sua bottega, l’edicolante che all’alba apre già l’edicola…”. Sono tutte storie tristi. Alcune più tristi ancora: la piccola zingara che veniva fatta prostituire per dieci euro, il baratro del nulla e di un’immoralità che di molto il sesso travalica, come per le baby prostitute romane – quelle voci persino di una madre, clienti osceni, evocazioni di griffe o telefonini… Nemmeno l’ignobile grandezza della schiavitù, della fame, dell’ignoranza… Scardella ha un sorriso misurato – come di chi sa che immensa è la massa d’acqua lì di fronte, e poco più di un cucchiaio ha in mano chi dovrebbe, se non salvare (che figurarsi), almeno provare a fissare un argine. C’è tutto un mondo, lì fuori – di strade, di piazze, di boschi, di fratte, di desideri inespressi, pure inesprimibili, eppure soddisfatti: “A Roma c’è posto per tutti, ognuno sceglie il suo angolo e se non crea problemi viene lasciato in pace”, dice il vicequestore aggiunto. Perché poi – quando i delitti contro le donne abbondano, quando la casistica si è ormai mutata in serial televisivi e leggi e appelli e scarpe rosse adagiate in ogni talk show – a parte il disagio sociale e il degrado e magari la rissa per il cliente o il marciapiede, pochi sono i crimini che dal mondo della prostituzione il mondo esterno sfiorano. E’ tutto soffocato – come uno dei mille e mille imbarazzati orgasmi.

 

(Nel gigantesco, infernale “giardino delle delizie” della capitale, dunque, fuoco di paglia di questa coda dell’inverno ultimo, quasi tutti pensano che nulla si muoverà. Le leggi più attente alla coscienza dei benpensanti – il benpensante che dice: oh, signora mia, che vergogna tutte quelle puttane; e il benpensante politicamente corretto: oh, il corpo non si vende, il corpo è sacro. Così che quei corpi ogni giorno e ogni sera pendono a bordo strada, a bordo pineta, issati sulla carrozzeria lucida di una macchina, come il bue squartato color scarlatto sul candore della neve, che ha quasi uno stupito e dolce sorriso sulla faccia, di Chagall. E un secchio sotto la gola recisa raccoglie il sangue che nessuno pare vedere).

 

Non succederà niente. “Non si può fare”, tutti a dire così, al sindaco – partiti e prefetti e authority e preti e monache e studiosi. Alcune volenterose parlamentari di tutti i partiti hanno presentato una nuova proposta – ma chissà dove potrà mai passare la linea di rottura tra la logica e l’ipocrisia. La sublime puttana romana, pur dalle cosce sfregiate da anni e anni di “fandango ubriaco”, come la Consuelo Pilar cantata dalla Vanoni, finirà ancora col prevalere, come nei secoli dei secoli ha sempre prevalso – che anzi, chi ha voglia di passare la serata con la noiosa, seppur lodata, matrona, piuttosto che con la più vispa e deprecata Messalina? A nessuno l’impresa è mai riuscita. Neppure al Papa, quando il Papa era tutto. E’ storia che nel 1556 Pio V molto meditò sul progetto di allontanare le mignotte dalla città santa – essendo la città stessa, ricettacolo di preti e chierici e vescovi maschi, luogo perfetto per le operose donne – e abbandonò l’idea: fu conteggiato, si disse, che tra puttane e protettori ben 25 mila avrebbero abbandonato la città, che si sarebbe così ritrovata santa sì, ma desolata pure. La mignotta è nella tradizione più evidente di Roma, in prima fila sul palcoscenico della sua storia, spesso all’onore della sua migliore saggezza – ne cantò le lodi il sommo Belli, cronista perfetto del popolo ruffiano e dei padroni buzzurri: “Bbe’? Ssò puttana, venno la mi’ pelle: / Fo la miggnotta, sì, sto ar cancelletto: / Lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto: / C’è ggnent’antro da dì? Che ccose bbelle!”, casomai le stesse allora lamentandosi per l’altrui farsi mignotta della signora di buon nome, che gratis la dava, e il pane a loro levava. Persino Leopardi, che al mal del mondo pareva solo votato, ebbe modo in città di valutare il meglio che al suo paesello aveva lasciato, “io non conosco le puttane d’altro affare, ma quanto le basse, vi giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma”. C’è Roma nei bordelli felliniani, che trabocca di tettone e culoni e labbroni, “so’ tutta ’n foco!… vamos, vamos con la spagnola!”, c’è via delle Zoccolette a dedicazione rimasta, e quella povera e triste battona che si ubriaca, “me so presa la toppa”, nella bella canzone di Pasolini, e sogna ciò che per sempre è perso, “me possi cecamme / me sento tornata a esse un fiore / de verginità! / Verginità! / Verginità! / Me sento tutta verginità!”. Mejo dei gladiatori, nella storia de Roma, le mignotte sue. Meglio degli dèi, hanno superato i secoli. Per questo inestirpabili – fosse per buona volontà, fosse per consuetudine e uso. C’è mignotta solo perché c’è cliente – sempre, e con rispetto de mamma, a sua volta “fijo de ’na mignotta” (espressione “munita di dignità letteraria”, assicurava Pasolini), così il cerchio si ricompone. Come una pizza con birra, più meno, costa il quarto d’ora della mignotta a Roma. E la mancia, da quell’accattone che si sta tirando su la chiusura lampo, sul poco e sullo scarso frettolosamente mostrato, mica è prevista. Servizio quasi gratis.

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