Vladimir Putin, Angela Merkel e Francosi Hollande insieme a Minsk (foto LaPresse)

“Un barlume di speranza”

Nella notte di Minsk si protende l'ultima (forse) mano tesa a Putin

Russia e occidente non sono universi incompatibili, una soluzione pacifica è possibile, ci dice lo storico Zubov.

New York. “Un barlume di speranza e nulla di più”, ha detto nel pomeriggio il portavoce di Angela Merkel in volo verso Minsk, dove con François Hollande e Petro Poroshenko ha incontrato il presidente russo, Vladimir Putin, per negoziare una risoluzione della crisi ucraina. I media russi dicono che anche i leader separatisti delle repubbliche di Lugansk e Donetsk sono arrivati nella capitale bielorussa per firmare un eventuale accordo fra le parti. Fra gli sguardi tesi delle delegazioni, Putin e Poroshenko si sono fugacemente stretti la mano prima di iniziare l’incontro che è frutto dell’iniziativa diplomatica dell’Europa a trazione franco-tedesca e benedetta a mezza voce da Barack Obama. A Washington molti chiedono di inviare armi all’esercito ucraino per costringere Putin ad accettare un accordo da una posizione di debolezza. Giusto per trasformare quel barlume di speranza in qualcosa di più. Ma qui le scuole di pensiero si dividono, le ipotesi divergono. Chi dice che Putin non cederà mai, a nessun costo, chi lo vede come un leader razionale e calcolatore che sa quando non è più tempo di tirare la corda.

 

Lo storico e politologo Andrej Zubov apprezza il lavorio diplomatico di Merkel, ma pensa che le armi, quelle pesanti, producano un certo effetto persuasivo perfino su Putin, che coltiva l’immagine del leader apocalittico. “Nella testa di Putin nessuno è riuscito ancora a entrare, ma qualunque manovra decida è frutto di una sua impostazione dei rapporti della Russia con l’occidente, non c’è una spaccatura storica o filosofica, e per questo dico che gli strumenti della diplomazia possono ancora funzionare”, dice al Foglio. Zubov sulla questione ucraina ci ha rimesso la cattedra. Sapeva bene che scrivere che Putin ha “perso la testa” e paragonare l’annessione della Crimea a quella della regione dei Sudeti non gli avrebbero procurato una promozione all’Istituto di stato delle relazioni internazionali, controllato dal ministero degli Esteri, e nel marzo scorso, poco dopo la comparsa dell’articolo “Questo è già successo” sulla rivista Vedemosti, l’Istituto lo ha allontanato per “violazione del codice di comportamento”. Di fronte allo spettacolo dell’incomunicabilità fra occidente e Russia, Zubov sostiene che si tratta di un fenomeno nato dopo la fine della Guerra fredda. Non c’entra il nazionalismo, l’ambizione imperiale, le visioni eurasiatiche. Non c’entrano nemmeno, dice, le differenze dottrinarie fra realisti e liberali. “Originariamente Europa e Russia ragionavano secondo categorie simili. Perfino l’Unione sovietica, un regime totalitario, parlava il linguaggio della diplomazia occidentale quando si trattava di negoziare, mentre oggi quest’idea si è persa”. E la colpa spiega Zubov, “è soltanto della leadership russa”.

 

[**Video_box_2**] Secondo la scuola realista di John Mearsheimer, intervistato sul Foglio la settimana scorsa, la causa remota della crisi è l’espansione dell’influenza della Nato, che  ha costretto Putin a una reazione terribile ma comprensibile. Per Zubov è un errore di prospettiva: “E’ innanzitutto Mosca che ha voluto questo schema, non l’occidente. Dopo la fine dell’Unione sovietica la Russia aveva due possibilità: seguire, con i tempi necessari, il modello euroatlantico, adeguandosi alle sue convenzioni e lavorando all’apertura economica e politica del sistema. L’alternativa era ricostituire lo schema bipolare, ed è quello che hanno fatto, soltanto che la Russia è molto meno potente dell’Unione sovietica, quindi deve supplire con l’aggressività. Non è l’espansione della Nato il problema, è la mentalità da Guerra fredda che Mosca ha scelto di restaurare, un anacronismo insostenibile”.