Denis Verdini (foto LaPresse)

La coscienza di Denis

Il Cav. dà di “birichino” a Renzi, e in FI salta il processo a Verdini

Salvatore Merlo

Quando parla del Nazareno lo fa accompagnando le parole con un movimento circolare della mano, appena accennato, come ad amalgamare, a plasmare, rappresentando così la natura magmatica di una sofistica contrattuale dove niente è mai definitivo, tutto possibile, tutto lo può diventare perché su tutto si può trovare un’intesa.

Roma. Quando parla del Nazareno, del patto, lo fa accompagnando le parole con un movimento circolare della mano, appena accennato, come ad amalgamare, a plasmare, rappresentando così la natura magmatica di una sofistica contrattuale dove niente è mai definitivo, tutto possibile, tutto lo può diventare, perché su tutto si può trovare un’intesa, a tutto una soluzione. E più che un ingranaggio dell’intesa scandalosa, è lui stesso il patto del Nazareno, in carne e sangue, capelli bianchi e bretelle bordeaux, così che, appena i suoi avversari dentro Forza Italia intravvedono una crepa tra il Cavaliere e Renzi, nel momento stesso in cui “il patto” sembra periclitare, allora è lui che inchiodano, un po’ autorizzati e un po’ no dalle ambiguità del Sovrano. “Verdini fa parte di un duo tragico”, ha detto in un soffio Mariarosaria Rossi, assistente di Berlusconi. Mentre lui, il Leporello del Nazareno, da settimane, tra un  silenzio e l’altro, ripete: “Ma lo hai capito o no che mi vogliono ammazzare?”.

 

Si cammina sulle uova. E così ieri, sul serio, doveva essere il giorno del processo politico e della condanna di Verdini. Tanto che l’aria, nel partito padronale, aveva già il sapore del castigo e del mistero, e ciascuno si toglieva un sassolino dalla scarpa, sin dalla sera prima, per lanciarlo lì dove lo lanciavano tutti gli altri, cioè in testa a Verdini, architetto del Nazareno ammaccato. Periodi brevi, aizzati dalla collera, mandati avanti come cavalli selvaggi: “Verdini ha avuto l’ardore di giurare davanti ai gruppi parlamentari che se avessimo votato l’Italicum avremmo avuto un presidente condiviso”, diceva Michaela Biancofiore, in diretta televisiva, a “Piazza Pulita”. E poi ancora il giovane Edoardo Sylos Labini, il marito di Luna Berlusconi, via Twitter: “Sono d’accordo con Fitto, Forza Italia va azzerata. Ma il primo ad andare via sia lui e si porti via Verdini!”. Ma la giornata, ieri, cominciata in un modo è finita in un altro: si è trasformata in qualcosa di affatto diverso, con il Cavaliere allegrissimo, invitato al Quirinale, alla cerimonia d’insediamento di Sergio Mattarella, e “circondato da così tanta gente che sembrava la Madonna”, racconta chi c’era. Così che Denis, lui che già da settimane se ne restava serio e provvisorio, con un piede dentro e uno fuori Palazzo Grazioli, pronto a prendere cappello, “non me lo ha ordinato il dottore di restare”, è improvvisamente apparso attivo, robusto, comunicativo: “Non vedo proprio perché dovrei dimettermi”. E davvero Berlusconi scombina e ricombina le gerarchie della sua corte con una battuta e un sopracciglio sollevato, con un soffio di contraddittoria, crudele e accattivante follia. Li mette gli uni contro gli altri, autorizza il dileggio, e governa il suo turbolento partito secondo un principio così antico da esprimersi ancora in latino: divide et impera. Ma poiché il Cavaliere non dimentica mai d’intuire la realtà mentre potentemente la altera, allora abbatte e poi subito ricostruisce il Nazareno, che gli è necessario come l’aria, e dunque torna anche a proteggere il suo Denis, lui che il Nazareno lo incarna, nel bene e nel male, negli alti e nei bassi, lui che riattacca il telefono ai giornalisti e che agli amici confessa una cosa sola: “Io è per lui, è per Berlusconi che lavoro dalla mattina alla sera”.

 

[**Video_box_2**]Così ieri, quando il Cavaliere ha incrociato Renzi tra i velluti lisi del Quirinale, non era più quello furente che la settimana scorsa aveva viaggiato da Roma a Milano in compagnia di Fedele Confalonieri, né quello che aveva autorizzato Giovanni Toti a chiedere l’azzeramento del partito, cioè l’azzeramento di Verdini. Al Quirinale Berlusconi ha motteggiato Renzi chiamandolo “birichino”, che è più di un buffetto: è la prova che i loro alterni rapporti si possono regolare solo così, con una reciproca e canagliesca accondiscendenza, la stessa che da mesi esplode festosa nel chiuso dei loro incontri privati, in atmosfere ariose e a volte crepitanti di quell’umorismo toscano e un po’ greve che piace a Verdini, e dicono anche a Luca Lotti. E tutti loro sono dunque dei dottori di amoralismo politico, come nel Medioevo si poteva esserlo in teologia, sanno cioè che trovarsi d’accordo non è cinica menzogna, né preparazione di concetti ingannatori, ma il tentativo di fuggire ciò che talvolta non si può fuggire: il conflitto e la diversità. Così se litigano, come hanno litigato per l’elezione di Mattarella, subito dopo si perdonano, “birichini”, e ricostruiscono il Nazareno con l’aria birbante di chi s’intende intorno a un comune codice di ribalderia, quello stesso condiviso sin dal 30 marzo 2005, il giorno in cui Verdini/Leporello, a Firenze, fece conoscere al Cavaliere un giovane spavaldo che era presidente della provincia, e che si chiamava Matteo Renzi. “Sono sicuro della lealtà di Verdini”, ha detto Berlusconi, chiudendo la questione. Forse.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.