Nel suo primo giorno come ceo di Yahoo, Marissa Mayer è stata accolta con poster simili a quelli della campagna elettorale di Obama, con la parola HOPE stampata sopra

Yahoo senza Ma

Eugenio Cau

Marissa Mayer ha dovuto affrancarsi dal gigante cinese Alibaba. Ora è da sola. Riuscirà a salvare Yahoo, il grande malato del web?

Ci sono tre categorie di persone a cui i giornali americani associano la parola “honeymoon”, luna di miele, il periodo magico in cui tutto va bene e i problemi sono rimandati: gli sposi novelli, i presidenti degli Stati Uniti e i ceo della Silicon Valley. Per i giornali americani la luna di miele di Marissa Mayer, ceo e presidente di Yahoo, finisce, periodicamente, circa ogni mese. Se si cerca su Google il nome di Mayer collegato alla parola “honeymoon” si ottengono 32 mila e trecento risultati, e questo vuol dire, sfrondando le ripetizioni, che secondo i media la luna di miele di Marissa Mayer è finita molte migliaia di volte, alcune decine solo nelle ultime 24 ore. (E sì, applicare il criterio poco statistico della ricerca Google alla donna che guida Yahoo è un colpo basso).

 

Anche Nicholas Carlson, giornalista di Business Insider, ha fissato la sua data per la fine della luna di miele di Mayer a Yahoo. Carlson è l’autore di “Marissa Mayer and the fight to save Yahoo!”, un libro uscito pochi giorni fa in America che si è già imposto come una delle migliori cronache della storia della compagnia di Sunnyvale e della sua ceo bionda. Il momento, secondo Carlson, è il novembre del 2013, quando Mayer è costretta ad affrontare in un’affollatissima riunione gli impiegati di Yahoo arrabbiati per i risultati mediocri della compagnia e le voci insistenti di licenziamenti di massa.

 

Ma da quando Mayer è stata chiamata alla guida di Yahoo, nel luglio del 2012, a ogni nuova presentazione dei risultati trimestrali qualcuno annuncia la fine della sua luna di miele. L’ultima trimestrale di Yahoo Mayer l’ha presentata questa settimana. E che si voglia parlare di luna di miele o meno, è stata la trimestrale più importante della sua carriera da ceo, quella dopo la quale i problemi non possono più essere nascosti sotto il tappeto. Questa settimana Marissa Mayer, insieme con dei risultati economici che non hanno entusiasmato gli investitori, ha spogliato Yahoo dell’85 per cento del suo valore di mercato, trasformando una compagnia da 45 miliardi di dollari in una da 5 miliardi – e in tutta risposta, mercati e investitori hanno applaudito. Questa settimana Mayer ha annunciato lo spinoff, il distacco dal corpo centrale della compagnia, del pacchetto di 384 milioni di azioni del gigante cinese Alibaba (il 15,4 per cento della compagnia) che da sole valevano circa 40 miliardi di dollari e costituivano il grosso del valore di Yahoo e al tempo stesso la sua ciambella di salvataggio. Nel 2005, quando Yahoo era ancora la più grande compagnia digitale del mondo, il cofondatore Jerry Yang, taiwanese naturalizzato statunitense, conobbe un piccolo uomo di Hangzhou, Cina, che con un gruppo di amici aveva messo su un sito di e-commerce usando come quartier generale il suo appartamento. Quell’uomo era Jack Ma, il sito era Alibaba, e nel 2005 era molto promettente. Yang investì la somma enorme (per Alibaba; per la Yahoo di allora erano poco più che briciole) di un miliardo di dollari nella creatura di Jack Ma, e in quel momento non sapeva di aver fatto l’investimento che avrebbe salvato Yahoo. Negli anni, mentre Yahoo iniziava il suo declino e infine il suo crollo fragoroso, Alibaba diventava la più grande compagnia di internet di Cina, un gigante dalle possibilità infinite. Il pezzo di Alibaba nella pancia di Yahoo è diventato il suo asset principale, e alla fine il suo ultimo pezzo pregiato. Negli ultimi cinque anni gli azionisti hanno continuato a investire in Yahoo perché sapevano che era l’unico modo per mettere le mani su un pezzettino di Alibaba, inaccessibile a causa della stretta legislazione cinese, ma a settembre Jack Ma ha fatto debuttare la sua creatura sul mercato di New York. E’ stato il più grande e lucroso esordio in Borsa della storia americana, e per Marissa Mayer è arrivato il momento di scegliere. Mayer ha dovuto rilasciare le azioni di Alibaba, non era più conveniente tenerle, e lo spinoff era il modo migliore per farlo senza perdere miliardi di dollari in tasse – in America questi ragionamenti sono fatti alla luce del sole, e i giornali parlano senza scandalo di come le compagnie cerchino di modificare la propria organizzazione societaria per pagare meno tasse.

 

Yahoo ha messo le sue azioni di Alibaba al sicuro in una società creata per l’occasione e chiamata SpinCo, e forse Jack Ma, che oggi è l’uomo più ricco di Cina ed è seduto su una montagna di miliardi di dollari, potrebbe decidere di ricomprarsele. Gli investitori hanno assistito alla mossa, compiaciuti, ma poi si sono voltati tutti verso Marissa Mayer. Non ci sono più salvagenti per lei, adesso Yahoo dovrà camminare con le sue gambe, mostrare di avere un progetto per tornare profittevole e rilevante nel mondo di internet. Non lo è da anni, e quasi nessuno pensa che Mayer ce la possa fare.

 

Si è detto che dopo lo spinoff delle azioni di Alibaba oggi Yahoo ha un valore di mercato di 5 miliardi di dollari. Ma le cose sono peggio di così, perché per valutare il business centrale di Yahoo bisogna spogliare la compagnia di un altro prezioso asset asiatico, la partecipazione in Yahoo Japan (che non fa parte dell’azienda, è una joint venture con il colosso giapponese Softbank). La partecipazione in Yahoo Japan è valutata circa 7 miliardi di dollari, e questo significa che secondo la calcolatrice cinica dei mercati finanziari Yahoo, con il suo business storico e i suoi 11 mila dipendenti, vale meno di zero.

 

Eppure c’è stato un tempo in cui Yahoo era la cosa più importante che ci fosse su internet. E’ iniziato tutto nel 1994, un’epoca in cui internet era una cosa per pionieri, quando due ragazzini di Stanford, David Filo e Jerry Yang, crearono una lista dei siti interessanti che trovavano in rete. Pagine con informazioni utili per lo studio, pagine con elementi divertenti, un sacco di siti porno. La chiamarono la “Jerry and David’s Guide to the World Wide Web”, e presto modificarono il suo nome in Yahoo!, acronimo di “Yet Another Hierarchical Officious Oracle” (il nome ufficiale di Yahoo comprende un punto esclamativo alla fine). La lista di Jerry e David presto divenne famosa a Stanford, poi Netscape, il primo browser di massa dell’èra di internet, decise di farne la sua pagina di default. Fu il boom. Yahoo, che allora non era altro che un elenco di link selezionati a mano e divisi per categoria, divenne la porta di accesso a internet, divenne internet stessa. Iniziò un’espansione fenomenale, che si estese anche all’estero. Jerry e David, ancora molto lontani dal prototipo di ceo della Silicon Valley in circolazione oggi, genio spietato e accentratore à la Zuckerberg, non assunsero cariche dirigenziali (David Filo non prese mai ruoli di responsabilità, non volle mai nemmeno un ufficio, rimase dipendente tra i dipendenti: nel suo libro Nicholas Carlson lo definisce “l’introverso definitivo”), scelsero dei manager esperti come il ceo Tim Koogle e il capo dell’ufficio operativo Jeffrey Mallett e videro la loro creatura, nata per gioco, diventare un gigante da oltre 100 miliardi di dollari alla vigilia dello scoppio della bolla della New economy, nel 2000. La bolla scoppiò, Yahoo fu travolta, ma sopravvisse. Poi arrivò Google.

 

La storia della sconfitta di Yahoo contro Google è l’archetipo di tutte le successive sconfitte di Sunnyvale. Yahoo aveva su Google un vantaggio di posizionamento di mercato, di tecnologia, di talento. Sedeva su una montagna di dollari quando Google era una start-up squattrinata. I manager di Yahoo ebbero la possibilità di comprare Google per ben due volte, una nel 1998 e una nel 2002. Non lo fecero, e sbagliarono tutte le mosse successive. La complessa ed efficace ricerca algoritmica di Google faceva impallidire il goffo elenco di link di Yahoo, ed era anche un modo molto più efficiente per diffondere pubblicità online. Yahoo prima cercò un accordo con Google, lasciò che crescesse sulle sue spalle, e quando finalmente decise di lottare sul terreno della ricerca online era troppo tardi. In dieci anni, tra il 2002 e il 2012, Yahoo è passata dall’essere il dominatore assoluto nel campo della ricerca online a essere un elemento marginale, e questa storia si è ripetuta molte volte. Yahoo ha avuto la possibilità, seria, di comprare Facebook da un giovanissimo Mark Zuckerberg, e se la fece scappare. Oggi Facebook vale molte volte più di Yahoo. Trattò per comprare YouTube, poi Twitter, e le lasciò andare.

 

Il management di Yahoo ha fatto errori nelle decisioni strategiche, ma errori ancora più grossi nella scelta delle persone. Dopo Koogle e Mallett, fatti fuori dallo scoppio della bolla della New economy (lasciando un disastro organizzativo dietro di loro), nel 2001 il board di Yahoo nominò come ceo l’anziano Terry Semel, presidente di leggendario successo della Warner Bros, ma poco avvezzo al core business di Yahoo. Poco avvezzo a usare internet, a dire il vero: Carlson racconta che al suo arrivo a Yahoo, Semel non sapeva usare l’email: ne dettava il testo alla sua segretaria e poi se la faceva stampare. Una volta, chiamò disperato il suo predecessore in piena notte perché non riusciva a fare log-in nel sito di cui era il ceo. Nel 2007, quando Semel si dimise, Yahoo non solo aveva perso la sua centralità nel mondo del tech, era diventata una compagnia di secondo piano. Il board nominò ceo il cofondatore Jerry Yang, che in pochi mesi commise un solo errore fatale: rifiutò un’offerta d’acquisto da parte di Microsoft che valutava la compagnia il 62 per cento in più del suo valore di mercato. Quando i mercati seppero del mancato accordo, il valore di Yahoo sprofondò, Yang si dimise, fu nominata al suo posto Carol Bartz, una manager tostissima che però non conosceva il business della pubblicità online, e divenne presto più famosa per le sue “f-bomb”, per l’abitudine di dire “fuck” praticamente a ogni intervista, che per i suoi risultati economici. Il suo successore, Scott Thompson, si dimise dopo pochi mesi perché nel suo curriculum aveva fatto finta di avere una laurea in Informatica. Non era vero, la sua unica laurea era quella da contabile.

 

Era la primavera del 2012, Yahoo era lo zombie di una compagnia informatica, tutti dicevano che il nuovo ceo avrebbe dovuto licenziare in tronco un terzo dei suoi dipendenti, forse la metà, per sopravvivere.

 

Quando Marissa Mayer è diventata ceo di Yahoo, nel luglio del 2012, l’hanno chiamata Superman, l’hanno chiamata l’unicorno, il ceo ideale che esiste solo nel mondo delle favole. Nicholas Carlson, che con il suo libro ha fornito il miglior resoconto di questi due anni di èra Mayer a Yahoo, racconta che al suo primo giorno alla compagnia Mayer è stata accolta con un tappeto viola (il colore societario di Yahoo), e che appese alle pareti della grande mensa della società c’erano delle gigantografie del suo volto colorato in rosso e in blu come nei celebri poster elettorali di Barack Obama, e la scritta “HOPE”, speranza, stampata vicino. Racconta anche che dopo i festeggiamenti, nel suo primissimo giorno a Yahoo, Mayer ha fatto impazzire uno dei tecnici della compagnia perché pretendeva che il suo computer – che tutti i suoi computer – fossero predisposti per poter lavorare sul codice, da casa o dal lavoro, come una qualunque altra programmatrice. Inoltre, Mayer era incinta di cinque mesi.

 

Quando Marissa Mayer, capelli biondi, occhi azzurri, una passione per i vestiti di alta moda e una laurea a Stanford, è stata scelta come ceo di Yahoo, era una beniamina nel mondo del tech. Mayer aveva passato tutta la sua carriera a Google, dove era diventata vicepresidente e aveva gestito il product management. Si occupava di rendere i prodotti, e in particolare la ricerca di Google, la parte più importante della compagnia, “user friendly”. Mayer decideva quale design avrebbe reso più facile le ricerche, quale disposizione degli elementi sulla pagina avrebbe aiutato l’utente a raccapezzarsi. Era la persona che gestiva il rapporto tra l’utente e l’algoritmo, e lo faceva mostruosamente bene. Il suo approccio era analitico, rigoroso, quasi maniacale. Poteva discutere giorni interi su quale sfumatura di blu usare per un bottone, o di quanti pixel allargare la barra delle ricerche. La sua puntigliosità mandava programmatori e designer in esaurimento, ma il prodotto che usciva dai suoi team era eccellente. Se la home page di Google è quella che è oggi molti meriti sono di Mayer, e se possiamo cercare su Google non solo siti internet ma anche immagini e notizie è perché Mayer ha avuto l’idea.

 

Negli anni, inoltre, Mayer è diventata molto amata dalla stampa. La sua figura glamour e il suo essere donna, la sua abilità davanti alle grandi folle hanno spinto il settore delle pubbliche relazioni di Google a puntare su di lei. Mayer appariva spesso in televisione, i suoi ritratti erano ospitati nelle migliori riviste patinate d’America, era diventata uno dei volti pubblici di una delle più potenti compagnie del mondo. Nel 2012, benché da due anni fosse stata spostata dalla gestione delle ricerche a quella delle mappe, un business più laterale (questa è una delle ragioni del suo addio a Google), Mayer era una delle donne più talentuose e potenti non solo della Silicon Valley, ma del mondo intero.

 

[**Video_box_2**]Una volta dentro Yahoo, Mayer ha iniziato una rivoluzione. Ha gradualmente licenziato buona parte dei manager legati alla vecchia èra, e con la sua etica del lavoro fenomenale (compresa una pausa per la gravidanza durata solo due settimane, che ha scatenato molte polemiche) ha cambiato la cultura interna della società. Se prima dell’arrivo di Mayer i dipendenti di Yahoo lasciavano l’azienda al giovedì pomeriggio per iniziare il weekend, pochi mesi dopo Sunnyvale straripava di gente al lavoro ancora al venerdì sera. Mayer ha dato trasparenza all’azienda, ha iniziato delle riunioni settimanali in cui rispondere alle domande dei dipendenti, ha reso gratuiti la mensa e i servizi di maternità. Ha fatto di Yahoo un posto migliore in cui lavorare, e ha restituito entusiasmo ai dipendenti.

 

Ma Mayer ha anche dato alla sua posizione quel piglio dittatoriale che era mancato ai ceo che l’avevano preceduta. Una delle ragioni per cui le compagnie della Silicon Valley riescono a reinventarsi in continuazione è perché sono guidate da uomini geniali che le gestiscono in maniera assoluta, che fanno errori ma hanno l’energia per andare avanti. Steve Jobs e Mark Zuckerberg sono uomini di questo calibro. Yahoo non ha mai avuto un dittatore di questo tipo, ma molti manager che a causa delle loro mancanze avevano bisogno di fare affidamento sugli altri e sulla terribile burocrazia dell’azienda. I collaboratori più stretti della nuova ceo hanno scoperto che nel suo ruolo di dittatrice, Mayer era una persona diversa dalla ragazza empatica e piena di charme che appariva in televisione o perfino nelle grandi riunioni generali. Quando è in charge, Marissa Mayer è gelida, determinata, e nasconde con l’aggressività una timidezza che spesso le impedisce di guardare negli occhi la persona che le sta parlando.

 

Sotto la guida di Marissa Mayer, Yahoo è diventata un’altra compagnia, una compagnia migliore secondo tutti gli analisti – ma i risultati economici deludenti sono rimasti gli stessi. Nonostante i suoi molti successi, benché Yahoo abbia pubblicato applicazioni vincitrici di premi e fatto acquisizioni di alto livello, come quella per oltre un miliardo di dollari della piattaforma di pubblicazione sociale Tumblr, i ricavi e gli utili della compagnia sono rimasti piatti, tendenti anzi al ribasso. Il settore della ricerca non recupera, la pubblicità langue, le visite sono in calo. Le quotazioni di Yahoo sono salite in questi due anni, ma solo perché nel frattempo da Hangzhou Alibaba era in pieno boom, e gli azionisti volevano farne parte.

 

Mayer ha fatto molti errori, soprattutto nell’ambito delle assunzioni. Il suo capo dell’ufficio operativo, Henrique de Castro, si è rivelato inadeguato al suo ruolo, e ha lasciato Yahoo nel gennaio del 2014. Soprattutto, però, Mayer non è ancora riuscita a rispondere alla domanda che tormenta la compagnia da oltre quindici anni: cos’è Yahoo? Una compagnia tecnologica à la Google, che vende innovazione, o una media company, che produce contenuti originali per internet? Yahoo è sempre stata divisa tra queste due anime, insieme alle app e alla tecnologia ha un settore di media digitali relativamente fiorente. Mayer, con il suo fantastico pedigree a Google, è stata assunta per fare di Yahoo una compagnia tech, e ha fatto molti passi in questa direzione, ma ha anche fatto delle assunzioni stellari nel campo dei media, ha assunto la anchorwoman Katie Couric per dirigere il canale delle news di Yahoo.com, l’esperto del New York Times David Pogue per guidare il settore delle notizie tech, e molti altri. Prima dell’arrivo di Mayer, quando qualcuno guardava a Yahoo vedeva uno strano motore di ricerca ibridato con un portale di intrattenimento. Oggi, a due anni dall’inizio dell’èra Mayer, in buona parte è ancora così.

 

Da questa settimana, ora che lo spinoff delle azioni di Alibaba ha tolto a Yahoo il suo ombrello di protezione, Marissa Mayer può iniziare davvero l’impresa disperata per salvare uno dei pionieri di internet. Sarà come iniziare da zero (da sottozero, a voler ascoltare le valutazioni di mercato, che comunque non tengono conto dei 5,7 miliardi di dollari che Yahoo ha ancora in cassa). Mayer ha sempre sostenuto davanti agli investitori che Steve Jobs ci ha messo cinque anni per inventare l’iPod e salvare Apple. Lei non è nemmeno a metà dell’opera, bisogna darle tempo. Sempre che ora che Yahoo è così piccola, qualche pesce più grande, come Microsoft o la stessa Alibaba, non decida di mangiarsela.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.