Quello dell’immersione in una realtà parallela è un topos della letteratura interiore dell’umanità da sempre, la modernità ci ha aggiunto il tocco simbolico degli occhiali (nella foto una prova della

I filosofi degli occhiali

C’è sempre qualcosa di nuovo sul fronte della Silicon Valley. Ci sono i fragori occasionali (uno spinoff di Yahoo, un lancio di Apple) e le schermaglie continue e a bassa intensità per scovare la next big thing prima dei competitor.

C’è sempre qualcosa di nuovo sul fronte della Silicon Valley. Ci sono i fragori occasionali (uno spinoff di Yahoo, un lancio di Apple) e le schermaglie continue e a bassa intensità per scovare la next big thing prima dei competitor. Da una rapidissima ricognizione nel settore si deduce facilmente che il nuovo prodotto su cui tutti i giganti della tecnologia si danno battaglia è in realtà basato su un concetto che ingombrava l’immaginario popolare già negli anni Ottanta e Novanta, quando Keanu Reeves era soprattutto Johnny Mnemonic e Neo non esisteva ancora: la realtà virtuale. Si fantasticava allora un mondo parallelo e computerizzato, possibilmente migliore di quello vero, dove giocare a “Doom” o visitare un museo o semplicemente muoversi in una dimensione diversa da quella reale. A ben vedere quello dell’immersione in una realtà parallela è un topos della letteratura interiore dell’umanità da sempre, forse già il giardino dell’Eden aveva il fascino del mondo separato e irraggiungibile per i primi uomini dell’èra post mela, l’immaginario religioso dell’antichità era fitto di visioni ultramondane, discese negli inferi e altre scorribande fuori dallo spazio convenzionale; la modernità ci ha aggiunto il tocco simbolico degli occhiali, che rivelano un mondo migliorato (aumentato) oppure svelano la cruda realtà dietro al velo di Maya, come in quel film di John Carpenter dove il protagonista vede attraverso magici occhiali da sole la verità manipolatoria e ideologica che si nasconde dietro ogni cosa, come fosse scritta su uno schermo.  Guarda il cartellone pubblicitario e legge “consuma”, sul giornale compare la scritta “sottomettiti”, nei manifesti elettorali “obbedisci”, in un delirio distopico-consumista a metà fra Schopenhauer e Zizek. Gli occhiali sono alternativamente un filtro distorcente e una via d’accesso alla vera natura delle cose. Sono realtà virtuale oppure realtà aumentata.

 

Il Ces, la fiera dell’innovazione di Las Vegas, quest’anno era tutta un pullulare di goggles, occhialoni per sparare nei videogiochi in first person, guardare film a immersione o creare ologrammi che potenziano la nostra percezione sfruttando un’enorme quantità di dati. Che la guerra dei goggles fosse pronta a scoppiare si era capito con certezza quando Mark Zuckerberg s’è avventurato fuori dal territorio degli acquisti social per comprare Oculus, immaginifica start-up nata dalla decennale esperienza dei migliori smanettoni della realtà virtuale in circolazione. Se l’avesse comprata Google nessuno si sarebbe stupito, l’universo intero e le sue infinite possibilità sono il core business del gigante di Mountain View, ma Facebook tende a inglobare aziende che hanno un’immediata applicazione social, tipo Instagram e WhatsApp. Spendere due miliardi di dollari per Oculus era il segnale di un cambiamento. Così è stato. Mercoledì, quando Zuck ha presentato i risultati di una trimestrale da urlo è stato vago sulla data di lancio di Oculus Rift, gli occhiali da connettere al desktop per esperienze virtuali sconvolgenti, ma ha fatto capire che non c’è fretta: “Oculus continua a fare progressi verso il futuro delle esperienze di realtà virtuale a immersione che saranno parte della vita quotidiana di milioni di persone”. Un modo generico per passare alla domanda successiva che contiene però alcune indicazioni sugli sviluppi della battaglia della realtà virtuale. L’obiettivo di Oculus è sdoganare l’esperienza virtuale nella vita quotidiana, con una tecnologia mobile non strettamente legata a una scrivania, aspetto che cambia completamente la fruizione della realtà virtuale così com’era stata finora immaginata e sperimentata. Non ci sarà soltanto il film visto dentro gli occhialoni dal divano di casa, ma il tizio seduto al bancone del bar di fianco a noi s’infilerà gli occhiali portatili per fare qualcosa. Che cosa è una questione del tutto secondaria.

 

Il fatto è che dai tempi di Johnny Mnemonic la sperimentazione sulla realtà virtuale non si è interrotta, semplicemente si è inabissata in una branca lontana dall’utenza di massa. Le simulazioni hanno fatto passi avanti enormi – anche la realtà virtuale obbedisce alla legge di Moore: le prestazioni dei processori raddoppiano ogni diciotto mesi – e trovato applicazioni professionali e scientifiche futurizzanti ed enormemente utili, basta pensare ai simulatori di volo, ma nulla che riguardasse direttamente il pubblico. Le grandi aziende tecnologiche erano impegnate a fornire al mondo schermi non fissi sui quali fare cose che hanno come orizzonte tendenziale quello di connettere persone e informazioni. Non una realtà parallela in cui immergersi ma un device portatile che dà un punto d’accesso alla rete, al tutto, questo è il paradigma. Lo smartphone – il tablet, lo smartwatch  ecc. – può distrarre e isolare dalla realtà esperibile fino ai limiti della sociopatia, e ben oltre quelli della scortesia, ma lo smartphone si può rimettere in tasca, gli occhi si possono alzare rapidamente dallo schermo per guardare la ragazza che sta attraversando la strada e della quale vi state per innamorare. I goggles generano un’altra esperienza, totalizzante e isolata, nella quale la realtà non-virtuale non ha potere d’interferenza. Non si può alzare lo sguardo per un’occhiata veloce, la realtà virtuale va avanti mentre la ragazza attraversa la strada, e addio storia d’amore.

 

Forse le realtà virtuale e aumentata da occhiali non si sono affermate come era lecito aspettarsi anche perché nessuno  finora è incappato nell’eureka, la trovata geniale che cambia improvvisamente la dinamica del mercato. Ora il gap tecnologico appare colmato. Bryan Bishop, giornalista tech del sito Verge, ha visto “Lost”, il primo cortometraggio a immersione prodotto dalla casa di produzione cinematografica che l’azienda ha costruito internamente, e ha commentato così: “A questo punto abbiamo sentito la storia della realtà virtuale per anni e sebbene la tecnologia diventasse sempre più incredibile, si è sempre trattato di piccoli passi avanti. Malgrado lo desiderassimo tutti fortemente, nessuno si è alzato in piedi è ha gridato: ‘Ecco il progetto che prova che questa follia può davvero funzionare’. Ho appena visto ‘Lost’. Quel momento in cui uno si alza e grida? E’ arrivato”. Segue sdilinquimento tecnologico e racconto dettagliato di questa storiella di cyborg che di per sé non cambierà la storia della sceneggiatura, ma il punto, l’eureka, è che lo spettatore sguazza dentro alla vicenda in modo credibile. Non guarda uno schermo, vive un’esperienza.

 

Molti player della Silicon Valley stanno lanciando goggles con varie funzionalità e diverse fasce di prezzo, apparecchi sofisticati destinati al cinema e ai videogame come quello di Oculus, la realtà aumentata di Microsoft, che da poco ha presentato HoloLens, oppure la realtà virtuale di massa di Google cardboard, occhiali da 25 dollari in cui si infila lo smartphone come fosse una tessera al posto delle lenti, e quello diventa lo schermo sul quale succede tutto, mentre il mondo là fuori va avanti a nostra insaputa. La stessa Oculus ha lanciato, in collaborazione con Samsung, una versione più sofisticata dello stesso concetto e chi lo ha provato dice nell’ambito dei device mobili non ha mai visto nulla di simile. E’ relativamente semplice creare un’esperienza virtuale con aggeggi complessi, costosi e pesanti che hanno senso soltanto se alimentati dalla potenza di un computer, la sfida è la portability, e la Silicon Valley si sta agitando per trovare la formula per la realtà virtuale portatile di massa. La next big thing era già qui da un pezzo, ora si tratta di metterla sul mercato. Dietro la realtà virtuale e aumentata – e specialmente quella portatile – emerge però un problema filosofico, diciamo così, che sta dando qualche grattacapo anche ai tecnoentusiasti, e ha a che fare con il passaggio epocale degli utenti da fruitori esterni di device a protagonisti immersi in un mondo virtuale o aumentato, il passaggio da sciroccati del multitasking con gli occhi che si muovono su vari schermi a esseri stranamente concentrati su un singolo oggetto virtuale. Dalla distrazione permanente all’attenzione.

 

[**Video_box_2**]David Carr, columnist del New York Times che si occupa di media e tecnologia, ha scritto della sua inquietudine dopo aver provato gli HoloLens di Microsoft, che ammantano le cose di ologrammi per rendere la realtà più smart: “Cos’è che rende la nostra realtà così insufficiente che ci sentiamo spinti ad aumentarla o migliorarla? Capisco perché la gente guarda compulsivamente lo smartphone in ascensore, o in metropolitana o mentre è in fila per prendere il caffè, ma siamo arrivati al punto in cui anche le nostre distrazioni richiedono distrazioni. Nessuna esperienza mediatica appare completa senza un secondo schermo, dove possiamo parlare con i nostri amici sui social o attraverso messaggi di quello che stiamo guardando. Ogni forma mediatica è basata sulla compagnia, nessuna merita un’attenzione esclusiva, acuta. O siamo le persone più annoiate nella storia della nostra specie oppure la mole delle nostre distrazioni ci costringe a comportarci in quel modo”. Carr propone il parallelo con il mondo trasparente e inquietante di “Black Mirror”, serie tv britannica contemporaneamente distopica e realistica in cui gli “specchi neri” – gli schermi – occhieggiano in ogni angolo della realtà, suggerisce una connessione con “Her”, il film di Spike Jonze in cui Joaquin Phoenix s’innamora di un sistema operativo che imita la realtà in modo quasi perfetto, ma le cose si complicano quando si tratta di affrontare la fisicità dei rapporti. Continua Carr: “Mi stavo congelando l’altro giorno e mi sono deciso a comprare un paio di guanti migliore. Appena ho ricominciato a sentire le dita sono andato su Amazon e ho digitato ‘guanti da uomo caldi’ e ne ho ordinato un paio. Ma se avessi potuto, usando HoloLens, provare divere paia di guanti per vedere come me li sentivo e come mi stavano? Al Ces di Las Vegas ho visto un sacco di applicazioni che fanno esattamente questo. Se Windows diventa il sistema operativo non solo del mio computer ma del mio mondo, quando dovrò avventurarmi effettivamente nel mondo reale? Posso parlare con gli ologrammi dei miei colleghi in teleconferenza, sciare virtualmente nella Squaw Valley in California e chiedere alla mia assistente di organizzare la mia giornata, la mia casa, la mia vita. In fondo, parlo già con il mio telefono e lui mi risponde. Siamo BFF, anche se soltanto uno di noi è umano”. L’esperienza dei goggles è totalizzante, isola invece di favorire la connessione fra persone. Paradossalmente il multitasking o l’ossessione per il second screen consente alla realtà di infilarsi negli interstizi della vita digitale, di fare capolino fra i passaggi da uno schermo all’altro. I goggles che restituiscono una realtà virtuale o aumentata eliminano questa eventualità. Questo sviluppo commerciale non sarebbe troppo sorprendente se non fosse che è l’azienda che più di ogni altra si è dedicata a creare canali e intricate reti di comunicazioni fra persone a investire su una tecnologia che sottolinea il rapporto esclusivo e univoco fra l’utente e un certo contenuto, che sia un videogame, un film o un’avvolgente serie televisiva.

 

Quando Facebook si è quotata in Borsa, Zuckerberg ha scritto la sua dedica per la mastodontica operazione: “Per un mondo più aperto e connesso”. Oculus va nella direzione opposta, quella di un’esperienza isolata che assorbe interamente l’attenzione dell’utente. Parlando con il Foglio, un ingegnere di Facebook la mette in questi termini: “E’ il primo prodotto che non ha al centro la capacità connettiva ma un’esperienza non interattiva. Certo, con i goggles si potrà comunicare, ma ci serve davvero tutta quella qualità per fare una conference call? Credo piuttosto che questo passaggio porterà a un aumento delle esperienze solitarie in luoghi pubblici, ovvero il contrario della condivisione, il concetto che sta alla base di un social network. Siamo di fronte a un cambiamento estremamente significativo”.

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