“Pur essendo politicamente meno minaccioso del conservatorismo, il P.C. di sinistra è in realtà più filosoficamente minaccioso. Si tratta di un credo antidemocratico”

Evvai! una sinistra anti pol.corr.

Jonathan Chait

Verso le 2 del mattino del 12 dicembre, quattro giovani si avvicinarono all’appartamento di Omar Mahmood, uno studente musulmano dell’Università del Michigan che aveva recentemente pubblicato un articolo su un giornale universitario sulle sue prospettive nel campus in quanto appartenente a una minoranza.

Verso le 2 del mattino del 12 dicembre, quattro giovani si avvicinarono all’appartamento di Omar Mahmood, uno studente musulmano dell’Università del Michigan che aveva recentemente pubblicato un articolo su un giornale universitario sulle sue prospettive nel campus in quanto appartenente a una minoranza. Gli studenti, che sono stati registrati da una telecamera di sorveglianza, indossavano larghe felpe col cappuccio per nascondere la propria identità, hanno coperto la porta di Mahmood  con copie del suo articolo, scarabocchiate con messaggi come “Feccia, ci vergogniamo”, “Chiudi quella c**** di bocca” e “Sei ancora qui?! Vattene!!”.

 

Questo potrebbe apparire come quel tipo di episodio che avrebbe acceso la coscienza morale degli studenti di un’università progressista come quella di Ann Arbor, e tutti sono stati subito d’accordo che si trattava di un atto di intimidazione. Ma Mahmood è stato largamente considerato come il colpevole più che come la vittima. Il suo articolo, pubblicato su un giornale studentesco conservatore, prendeva in giro la cultura del risentimento che pervade l’università. Mahmood ha ironicamente fatto finta di denunciare “l’uomo bianco, orgogliosamente-etero e dell’upper-class” che si era offerto di aiutarlo dopo che era scivolato, portandolo a denunciare “il nostro atteggiamento barbaro nei confronti delle persone mancine”. Il tono gentile della sua presa in giro era più vicina a Charlie Brown che a Charlie Hebdo. (…) Mahmood dopo ha detto che gli era stato riferito dal direttore che il suo articolo aveva creato un “ambiente ostile”, in cui almeno un membro del giornale si è sentito minacciato, e che doveva scrivere una lettera di scuse al personale. Al suo rifiuto, il Daily lo ha licenziato, e la conseguente vandalizzazione del suo appartamento ha confermato il suo status di criminale d’opinione.

 

L’episodio non avrà scioccato chiunque abbia familiarità con il panorama universitario da due decenni a questa parte. Nel 1992, un episodio grosso modo simile ha avuto luogo, sempre ad Ann Arbor. In questo caso la colpevole fu la videomaker femminista Carol Jacobsen, che aveva prodotto una mostra che documentava la vita delle sex workers. I soggetti presentavano la propria professione come una forma di auto-affermazione (self-empowerment), una posizione che si scontrava frontalmente con le teorie di Catharine MacKinnon, una professoressa di diritto nell’università che si era guadagnata fama a livello nazionale per la sua radicale critica al Primo emendamento come strumento di privilegio maschile. Le idee della MacKinnon erano intrecciate con un movimento accademico che fu poi definito, dai suoi sostenitori come dai suoi critici, come “political correctness”. L’ateneo aveva già risposto alle richieste degli attivisti politically correct imponendo un codice universitario che pretendeva di limitare ogni tipo di discorso discriminatorio, ma fu bocciato dalla Corte federale per violazione del Primo emendamento. Ad Ann Arbor, MacKinnon aveva attirato un fedele seguito di studenti, molti dei quali avevano mutuato il suo metodo argomentativo. Gli studenti pro MacKinnon, turbati dalla proiezione di video pornografici, entrarono alla mostra della Jacobsen e confiscarono il filmato. C’erano dei relatori ospiti dell’università per una conferenza sulla prostituzione, e il video era “una minaccia alla loro sicurezza”, insisterono gli studenti.

 

E’ la stessa inversione di vittima e carnefice vista all’opera lo scorso dicembre. In entrambi i casi, la minaccia non è stata ritenuta la folla inferocita per schiacciare le idee avverse, ma quelle stesse idee. La teoria che anima entrambi gli attacchi si rivela essere resistente, con profonde radici nella sinistra politica.

 

La recente strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi è stata accolta con rabbia e dolore immediati e senza riserve dall’intero arco politico americano. Ma mentre lo sdegno per l’atto violento ha rapidamente unito la nostra cultura politica generalmente rissosa, i litigi sono velocemente ricominciati lungo fratture più profonde. Sono dei martiri della satira uccisi per mano del fanatismo religioso, o degli arroganti portavoce del privilegio? Può l’offensività di un’idea essere oggettivamente determinabile, oppure essere determinata solo dal ricorso all’identità della persona che si sente offesa? Su Twitter, “Je Suis Charlie”, uno slogan che proclama la libertà di parola, è stato in breve tempo uno dei più popolari hashtag nella storia. Ma subito è arrivata la reazione (“Je Ne Suis Pas Charlie”) da parte di quelli che da sinistra accusano il giornale di razzismo e quelli che da destra indicano le vignette come incitamento all’odio. Molte aziende editoriali, tra cui il New York Times, hanno rifiutato di pubblicare le vignette che i terroristi hanno ritenuto offensive, una posizione che ha attirato le critiche stridenti di alcuni lettori. Queste improvvise, drammatiche espressioni di angoscia contro l’insensibilità e l’ipersensibilità arrivano in un momento in cui ampie fasce della cultura americana si sono contorte in un atteggiamento censorio.

 

Dopo l’irruzione sulla scena accademica tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, il “politicamente corretto” è entrato in una fase di assorbimento. Ora è ritornato. Alcune delle sue espressioni hanno una tonalità familiare, come la protesta contro relatori anche leggermente controversi nei college. Si può ricordare quando 6 mila persone all’Università di Berkeley in California hanno firmato una petizione lo scorso anno per fermare un discorso agli studenti di Bill Maher, colpevole di aver criticato l’Islam (insieme a quasi tutte le altre grandi religioni del mondo). Oppure quando i manifestanti allo Smith College hanno chiesto la cancellazione di un discorso agli studenti di Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, accusando l’organizzazione per “i sistemi imperialisti e patriarcali che opprimono e maltrattano le donne in tutto il mondo”. Anche l’anno scorso, i manifestanti alla Rutgers hanno scacciato Condoleezza Rice; altri alla Brandeis hanno bloccato Ayaan Hirsi Ali, attivista per i diritti delle donne che è anche una convinta critica dell’Islam. Quelli ad Haverford hanno protestato con successo contro l’ex rettore di Berkeley Robert Birgeneau, squalificato per un episodio in cui la polizia dell’università ha usato la forza contro i manifestanti di Occupy.

 

In un numero crescente di campus universitari, i professori ora appongono dei “trigger warning” ai testi che possono irritare gli studenti, e c’è una campagna per sradicare le “microaggressioni”, o piccole offese sociali che potrebbero causare brucianti traumi. Questi nuovi termini alla moda semplicemente ripresentano un principio centrale del primo movimento politically correct: si pretende che le persone trattino idee o comportamenti anche vagamente spiacevoli come offese immense. (…)

 

Ma sarebbe un errore categorizzare la cultura politically correct di oggi solo come un fenomeno accademico. La political correctness è uno stile politico in cui i membri più radicali della sinistra tentano di disciplinare il discorso politico, definendo le idee opposte come bigotte e illegittime. Due decenni fa, le uniche comunità in cui la sinistra poteva esercitare un tale controllo egemonico erano all’interno del mondo accademico, che ne ha dato un’influenza sulla vita intellettuale sproporzionata rispetto alla sua dimensione numerica. La political correctness di oggi fiorisce di più a causa dei social media, dove gode di un brivido cool e di un nuovo vasto raggio culturale. E dal momento che i social media sono ora anche l’ambiente che ospita gran parte del dibattito politico, il nuovo politically correct ha raggiunto un’influenza sui commentatori e sul giornalismo mainstream superiore a quella del vecchio.

 

E muove anche soldi. Ogni società editoriale sa che le storie sui pregiudizi di razza e di genere attirano un pubblico enorme, facendo dell’identità politica un centro affidabile di profitto in un settore industriale afflitto dall’insicurezza. Un anno fa, per esempio, una fotografa ha raccolto le immagini di studenti della Fordham che mostrano segni che raccontano “un caso di microaggressione razziale che hanno affrontato”. Le storie andavano dallo sgradevole (“No, da dove vieni davvero?”) al relativamente innocuo (“‘Sai leggere questo?’ Mi ha mostrato una scritta giapponese sul suo telefono”). BuzzFeed ha pubblicato parte del suo progetto e ha ricevuto più di 2 milioni di visualizzazioni. Questa non è un’anomalia. In un breve periodo di tempo, il movimento politically correct ha assunto una presenza imponente nello spazio psichico delle persone politicamente attive in generale e di quelle di sinistra in particolare. (…)

 

Politically correct è un termine il cui significato è stato gradualmente diluito da quando è diventato un tema infiammabile 25 anni fa. La gente usa la locuzione per descrivere la correttezza (forse fino all’eccesso), o l’evasione da dure verità, o (come termine di abuso da parte di conservatori) la sinistra liberal in generale. La confusione l’ha reso più attraente per i liberal che condividono l’obiettivo di combattere i pregiudizi razziali e di genere. Tuttavia la “political correctness” non è un impegno rigoroso per l’uguaglianza sociale, quanto più che altro un sistema di repressione ideologica di sinstra. Non solo non è una forma di liberalismo; è antitetica al liberalismo. Infatti, le sue vittime più frequenti risultano essere i liberal stessi.

 

Io sono bianco e maschio, un fatto che certamente vale la pena ricordare. Sono stato anche uno studente dell’Università del Michigan durante l’incidente Jacobsen, e sono stato attaccato per aver scritto un articolo per il giornale del campus che difendeva la mostra. Se si considerano quest’informazione demografica e questo background l’essenza del mio punto di vista, allora non sarà molto utile proseguire oltre con la lettura. Ma questa inutilità è esattamente il punto: la correttezza politica rende il dibattito irrilevante e spesso impossibile. Sotto la cultura P.C., la stessa idea può essere espressa in modo identico da due persone, ma accolta in modo diverso a seconda della razza e del sesso degli individui che l’esprimono. Ciò ha portato a elaborare norme e terminologie dentro alcune comunità della sinistra. Ad esempio, “mansplaining”, un concetto diffuso nel 2008 da Rebecca Solnit, che ha descritto la tendenza degli uomini a pontificare alle donne su argomenti che la donna conosce meglio – secondo Solnit, l’uomo in questione fa “mansplaining” del suo libro a lei. La divulgazione rapida del termine dimostra come possa essere esasperante il fenomeno, e “mansplaining”, a volte, si è dimostrato utile per identificare la discriminazione insita nella maleducazione di tutti i giorni. Ma ora è diventato un termine per ogni tipo di abuso, che può essere utilizzato per screditare qualsiasi argomento di un uomo. Da Mansplaining si è poi arrivati a “whitesplaining” e “straightsplaining”.

 

(…) Se una persona che è accusata di pregiudizi tenta di difendere le sue intenzioni, aggrava solo la propria colpa. (Qui potrei trovarmi accusato di man/white/straightsplaining). E’ ugualmente tabù chiedere che l’accusa venga presentata in maniera meno ostile. Se si viene accusati di pregiudizio, o “called-out”, la riflessione e le scuse sono l’unica risposta accettabile – discutere su un “call-out” aggrava la situazione. Non c’è alcuna concessione nella cultura P.C. alla possibilità che l’accusa possa essere errata. Una persona bianca o un uomo può raggiungere lo status di “alleato”, tuttavia, se segue le regole del dialogo P.C. Una comunità, virtuale o reale, che aderisce alle regole viene considerata “sicura”. La nuova estesa terminologia svolge un ruolo fondamentale, ingabbiando il tutto in presupposti ideologici condivisi che rendono impossibile il disaccordo espressivo.

 

(…) La destra negli Stati Uniti è insolitamente forte rispetto a quella delle altre democrazie industrializzate, e ha trascorso due generazioni trasformando “liberal” in una temuto termine con connotazioni radicali. Questa lunga campagna di propaganda ha radicato l’errata percezione – non solo tra i conservatori ma anche tra molti liberal – che i liberali e la sinistra siano per la stessa cosa. E’ vero che i liberal e la sinistra vogliono entrambi rendere la società più economicamente e socialmente egualitaria. Ma i liberal continuano ad abbracciare la classica tradizione politica illuminista che custodisce i diritti degli individui, la libertà di espressione e la protezione di una specie di libero mercato politico. (Così, del resto, anche la maggior parte dei conservatori). La sinistra marxista ha sempre respinto l’impegno del liberalismo per tutelare i diritti dei suoi avversari politici – ricordate la vecchia frase spesso erroneamente attribuita a Voltaire, “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo” – come irrimediabilmente naive. Se si mantengono uguali diritti politici per i capitalisti oppressori e le loro vittime proletarie, questo semplicemente manterrà le diseguali relazioni di potere nella società. Perché rispettare i diritti della classe il cui potere stai cercando di distruggere? E così, secondo il pensiero marxista, i tuoi diritti politici dipendono interamente dalla classe a cui appartieni.

 

[**Video_box_2**]La moderna estrema sinistra ha preso in prestito la critica marxista del liberalismo e ha sostituito l’identità di razza e genere con quella economica. (…) La correttezza politica piace ai liberal perché pretende di rappresentare un’opposizione più autentica e stridenta al loro comune nemico, il pregiudizio razziale e di genere. E naturalmente i liberal sono corretti, non solo per contrastare il razzismo e il sessismo, ma afferrano (in un modo che conservatori in genere non fanno) che questi pregiudizi gettano un’ombra nefasta e continua su quasi ogni aspetto della vita americana. Poiché i pregiudizi razziali e di genere sono incorporati nelle nostre abitudini sociali e familiari, i nostri schemi economici, e anche il nostro subconscio, hanno bisogno di essere combattuti con un certo livello di coscienza. La semplice assenza di discriminazioni palesi, non basta. I liberal ritengono (o dovrebbero credere) che il progresso sociale può continuare mentre noi manteniamo il nostro ideale tradizionale di un mercato politico libero dove possiamo ragionare insieme come individui. La correttezza politica contesta tale fondamento ideale liberale. Pur essendo politicamente meno minaccioso del conservatorismo (l’estrema destra detiene ancora molto più potere nella vita americana), il P.C. di sinistra è in realtà più filosoficamente minaccioso. Si tratta di un credo antidemocratico.

 

(…) Internet ha ridotto la distanza tra la cultura P.C. e la politica liberal mainstream, e le due sono ora irrimediabilmente aggrovigliate. Durante le primarie del 2008 tra Hillary Clinton e Barack Obama, la moderna politica del risentimento aveva già cominciato a giocare in campo aperto, con i sostenitori di ciascun campo che pattugliavano l’altro per ogni commento che potesse indicare pregiudizi razziali o di genere. Si è dissipata nelle elezioni generali, ma in parte perché i sostenitori di Obama erano preoccupati se l’America fosse davvero pronta ad accettare il suo primo presidente che non fosse un maschio bianco. Clinton entra nella corsa per il 2016 in una posizione molto più forte di qualsiasi altro candidato, e i suoi sostenitori possono trovare irresistibile amplificare l’abitudine della cultura P.C. cultura di interrogare i pregiudizi di genere nascosti in ogni parola e gesto contro la loro parte.

 

O forse no. Lo stile P.C. ha un grave, forse fatale inconveniente: è estenuante. Le rivendicazioni di vittimismo che sono utili nella sottocultura di sinistra possono allontanare gran parte dell’America. Il severo puritanesimo del movimento può spingere le persone all’oltraggio, ma può rivelarsi poco adatto allo stato d’animo pieno di speranza necessario alla politica di massa. Né fa ben sperare per la longevità del movimento il fatto che molti dei suoi alleati sono usurati. “Mi sembra ora che il volto pubblico del liberalismo sociale ha cessato di apparire positivo, gioioso, umano e liberatorio”, ha confessato lo scrittore progressista Freddie deBoer. “Ci sono tanti modi di camminare su un campo minato oggi, così tanti termini diventati proibiti, tanti atteggiamenti che ti portano a essere cacciato fuori se anche solo sembri averli. Non sono affatto il solo nel sentire che in genere non vale la pena impegnarsi, dati i rischi”. Goldberg ha scritto di recente sulle persone “che si sentono emotivamente aggredite per il loro coinvolgimento nel movimento femminista on line, non a causa di troll sessisti ma a causa dei giudizi severi di altre femministe”. L’ex direttrice di Feministing, Samhita Mukhopadhyay, le disse: “Così tutti hanno così paura di parlare adesso”.

 

Che il nuovo “politicamente corretto” abbia intimidito anche molti dei suoi stessi sostenitori in un silenzio avvilito è un trionfo, ma dall’utilità limitata. La politica in democrazia si basa ancora sul convincere la gente a essere d’accordo con te, non sul terrorizzarle per il fatto che possano non essere d’accordo. I risultati storici di quei movimenti politici che hanno cercato di ampliare la libertà degli oppressi eliminandola per i loro nemici sono pessimi. Il risultato storico del liberalismo americano, che ha esteso le libertà sociali ai neri, agli ebrei, ai gay e alle donne, è glorioso. E quella gloria riposa nella fiducia che sia il potere ultimo della ragione, non la coercizione, a trionfare.

 

*Quelli che pubblichiamo sono stralci di un saggio apparso sul New York Magazine.
Traduzione a cura di Luciano Capone
e Marco Valerio Lo Prete

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