Moneta unica ma lenta

Perfino in Europa riformare paga. Lavorare poco, invece, si paga

Marco Valerio Lo Prete

Lo sprint sviluppista della Spagna, la Francia ferita dalle 35 ore, l’Italia nel mezzo (con un po’ più di occupati). Visco pro Jobs Act di Renzi.

Roma. Riformare l’economia paga, in termini di risultati economici (vedi la Spagna); lavorare poco invece si paga (vedi la Francia). Banale ma vero, anche in questa prolungata fase di stentata ripresa dell’Eurozona, con problemi strutturali che riguardano la moneta unica in sé, primo fra tutti il rischio deflattivo che la Banca centrale europea tenta di sventare con politiche di Quantitative easing (o allentamento monetario).    

 

Ieri l’Istituto di statistica spagnolo ha fatto sapere che nel quarto trimestre dello scorso anno il pil nazionale è cresciuto dello 0,7 per cento rispetto ai tre mesi precedenti; un balzo così non si vedeva da sette anni. Risultato: nel 2014 la crescita del pil di Madrid è stata pari all’1,4 per cento (dal 2008 aveva perso 5 punti). Pure il tasso di disoccupazione monstre del paese scende: dal 25,7 per cento nel 2013 si è passati nel 2014 al 23,7 per cento. Il governo dei conservatori di Mariano Rajoy non se la passa bene nei sondaggi in vista delle elezioni del dicembre 2015, ma il suo sforzo riformatore è indubbio. Nel 2012, appena insediato, l’esecutivo ha per esempio riformato radicalmente il Derecho Laboral, aumentando la flessibilità in uscita (la possibilità di licenziare, e si vede) e spostando la contrattazione a livello aziendale e non più centralizzato. Il governo poi è riuscito a sfruttare abilmente i fondi europei per pulire i bilanci delle banche e rianimare un po’ il credito. Senza dimenticare i tagli delle tasse sulle società già approvati per il 2016.

 

Proprio le riforme, ieri, sono state citate dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, come fattore cruciale per interpretare l’andamento del mercato del lavoro in Italia: a dicembre, per l’Istat, il tasso di disoccupazione è sceso al 12,9 per cento (0,4 in meno da gennaio).

 

“Dal 2007 a oggi il tasso di disoccupazione nel nostro paese è più che raddoppiato – ha detto il governatore della Banca d’Italia, Visco – I disoccupati hanno raggiunto i 3,5 milioni, con un aumento di quasi due milioni di unità”. Poi però il governatore ha pure fornito una notevole apertura di credito al governo Renzi: “Con le più recenti riforme, quella del 2012 e quella in fieri delineata nel Jobs Act, l’Italia ha mosso passi importanti nella giusta direzione”. I dati comunicati ieri dall’Istat parlano di 22 milioni 422 mila occupati, 93 mila in più da novembre, 109 mila in più dal dicembre 2013: “E’ il primo segnale di contrazione della disoccupazione dopo un periodo di crescita che si è protratto nella seconda metà dell’anno”, secondo l’Istituto di statistica. L’andamento positivo di dicembre non è riconducibile all’approvazione del Jobs Act, di cui si attende ancora l’approvazione definitiva dei primi decreti attuativi; inoltre, secondo Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma, il bilancio del mercato del lavoro rimane comunque negativo negli ultimi tre mesi del 2014. Matteo Renzi su Twitter ieri esultava: “Centomila posti di lavoro in più in un mese. Bene, ma siamo solo all’inizio. Riporteremo l’Italia a crescere #lavoltabuona”, ha scritto il presidente del Consiglio.

 

[**Video_box_2**]Di tutt’altro tipo, nell’Eurozona, è il dibattito francese. Il “motore franco-tedesco” del continente è sempre più squilibrato, non soltanto perché l’apparato produttivo tedesco ha guadagnato competitività negli ultimi anni, ma anche perché quello francese ne ha persa in quantità. Domani ricorre l’anniversario dell’approvazione della legge Aubry che nel 2000 stabilì lo storico tetto di 35 ore di lavoro settimanale per i lavoratori francesi. Il governo socialista di Manuel Valls preme per abbattere il totem, di cui in queste ore il think tank Coe-Rexecode ha provato a quantificare i costi per l’economia a distanza di quindici anni. Mediamente i francesi lavorano 1.661 ore l’anno, cinque settimane in meno dei lavoratori tedeschi (1.847 ore); meno di loro, in Europa, lavorano soltanto i finlandesi. Inoltre dal 2003 al 2013 lo stato ha perso un potenziale gettito di 118 miliardi di euro per offrire alle imprese gli incentivi necessari a passare al regime delle 35 ore. Infine la diminuzione delle ore lavorate, a fronte di salari rimasti stabili, ha contribuito fin dal 2000 a ridurre la competitività internazionale delle aziende locali. E questo è almeno uno dei fattori che nel 2014 hanno fatto salire il tasso di disoccupazione in Francia al 10,3 per cento. In Germania è al 4,8 per cento.

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