Una donna iraniana con l'effige dell'ayatollah Ruhollah Khomeini (foto LaPresse)

I mandanti iraniani per Charlie Hebdo

Redazione

Pochi si sono accorti della notizia che nel computer di uno dei fratelli Kouachi, gli attentatori che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo, è stata trovata la fatwa dell’ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie.

Pochi si sono accorti della notizia che nel computer di uno dei fratelli Kouachi, gli attentatori che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo, è stata trovata la fatwa dell’ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie. I terroristi erano sunniti legati ad al Qaida, ma la matrice ideologica della strage porta il timbro della Rivoluzione islamica dell’Iran. Nel 1991 la fatwa di Khomeini diede i suoi primi frutti: a Tokyo venne ucciso a pugnalate il traduttore giapponese dei “Versetti satanici”, Hitoshi Igarashi. Poi i sicari iraniani uccisero un imam belga a Bruxelles, Abdullah al Ahdel, perché il religioso aveva osato criticare la sentenza di morte. Adesso è stata la volta di Charlie Hebdo. I mullah in Iran hanno più volte spiegato che la fatwa continua a essere valida perché soltanto la persona che l’ha emessa potrebbe revocarla, e quindi la morte di Khomeini ha impedito che ciò potesse avvenire.

 

La cosa importante non è mai stato il contrasto tra l’ayatollah e Rushdie, scontro che invece ha monopolizzato il caso, fino a farne una spy story. Il dato storico, epocale del caso Rushdie è che la fatwa del mullah supremo si è autoimposta sulla umma tutta, sunnita e sciita, la comunità islamica dei credenti, in occidente quanto in oriente. Khomeini ottenne un altro risultato: intimorire la comunità degli scrittori, tanto che all’epoca della fatwa, soltanto pochi, coraggiosi letterati si schierarono apertamente in difesa di Rushdie (come Arthur Miller, Norman Mailer e Milan Kundera). Trent’anni dopo la fatwa, due anonimi ragazzi francesi delle banlieue hanno preso nelle loro mani il mandato di Khomeini a uccidere “i blasfemi”.