Mario Draghi (foto LaPresse)

Alcuni facili ottimismi, ma restano questioni da risolvere: su cosa investiamo?

Ernesto Felli

Ciò che conta è che una barriera politica e psicologica è caduta e la Bce si avvia a diventare una Banca centrale più normale.

Al momento di scrivere questo diario non abbiamo ancora i particolari dell’azione annunciata dalla Bce per combattere la deflazione e, attraverso l’impatto sui tassi di interesse reali e il tasso di cambio, favorire la ripresa economica nell’area euro. I particolari, riguardanti la dimensione programmata degli acquisti e la ripartizione dei rischi tra banche nazionali e Bce, del Quantitative easing annunciato da Draghi saranno importanti per valutarne l’efficacia. Molto si è detto e molto si dirà sulla possibilità di raggiungere gli obiettivi specifici, più inflazione, e quelli più generali, investimenti e crescita. Ma ciò che conta è che una barriera politica e psicologica è caduta e la Bce si avvia a diventare una Banca centrale più normale. I fatti politici e psicologici in economia contano, soprattutto se si cumulano in una stessa direzione. Il secondo fatto, anch’esso psicologico e politico, da tenere in considerazione è il Piano Juncker che prevede la costituzione di un Fondo europeo di investimento strategico (Efsi) diretto, secondo le stime della Commissione europea, a mettere in moto almeno 315 miliardi di investimenti nei prossimi tre anni, attraverso una garanzia europea di 21 miliardi. Lo scetticismo rispetto alla consistenza effettiva di questo piano, che in parte utilizza risorse già previste e non mette a disposizione sostanziali capitali aggiuntivi, è certamente maggiore di quello che si mostra per il piano d’azione annunciato dalla Bce. Tuttavia non c’è dubbio che in Europa e nelle sue istituzioni s’inizi a discutere di politica economica dopo i danni procurati dalla sua completa assenza ormai più che quinquennale. I meriti “politici” di questa inversione di atteggiamento sono purtroppo da ascrivere alla caduta degli investimenti di oltre il 20 per cento dall’inizio della crisi e al fatto che non c’è stata alcuna ripresa da allora, mentre un recupero c’è stato negli Stati Uniti e in Giappone. Si può quindi discutere, e lo abbiamo fatto nei modi sintetici propri di questo diario la scorsa settimana, sulla tesi della stagnazione secolare e se, di conseguenza, il problema americano (dove il tema è stato sollevato), e più in generale quello dei paesi avanzati sia un problema di domanda o di offerta.

 

Tuttavia, in Europa, la questione degli investimenti, cioè della loro insufficienza, ha a che fare con le aspettative sulla domanda, che influenzano il tasso di rendimento, e si riverbera sulle condizioni di offerta, cioè innanzitutto sulla dinamica della produttività. I fatti di cui parliamo, che per ora sono principalmente politici e psicologici, rappresentano forse la presa d’atto di quanto tutti gli analisti, o quasi, ormai riconoscono da tempo – tranne alcuni che ripetono storie intorno al ruolo della Spending review (vedi l’articolo fotocopia di Alesina e Giavazzi su Corriere della Sera di ieri), cosa certamente buona, ma certo non dirimente. L’ottimismo, non proiettato sul breve periodo, che inizia a pervaderci è peraltro limitato. Accanto a questi segni di svolta vi sono ancora, infatti, remore e discussioni che lasciano perplessi, come quelle intorno al tipo di investimenti che il nuovo Fondo europeo dovrebbe finanziare. Si dice che non si debbano finanziare investimenti che possono essere finanziati da privati, altrimenti non si avrebbero investimenti addizionali. D’altra parte, si devono finanziare investimenti “efficienti”, ovviamente, altrimenti si creano distorsioni nell’uso delle risorse.

 

Generare il fenomeno del “crowding in”

 

Dietro queste discussioni temiamo ci sia ancora chi si attarda nell’idea che i mercati si aggiustano da soli anche in condizioni di particolare squilibrio. E’ possibile che ci sia un eccesso di risparmio rispetto alle possibilità di impiego con rendimento adeguato. Ma i motivi sarebbero strutturali. Nelle condizioni di recessione e stagnazione prolungata, e in presenza di trappola della liquidità, l’eccesso di risparmio si può riassorbire sia aumentando gli investimenti sia mediante una riduzione del risparmio quale quella conseguente a una caduta prolungata del reddito. La seconda strada porta infatti a un nuovo equilibrio ma di un livello molto più basso in termini di reddito e benessere. Il timore che si ripeta il ragionamento rigorista che abbiamo già vissuto intorno alla tesi dell’austerity, e che ha portato l’Europa al disastro, non è infondato. Dobbiamo, quindi, finanziare investimenti sbagliati?

 

Certamente no, ma è certo che gli investimenti buoni che in condizioni normali possono essere finanziati dai privati oggi non ci sono, o sono insufficienti, perché le condizioni di rendimento attuali non li rendono appetibili. Ciò di cui abbiamo bisogno sono quindi investimenti pubblici buoni, sia finanziati dall’Europa sia sul bilancio nazionale. Investimenti il cui rendimento o non è appropriabile facilmente dai privati, o è reso incerto dalle aspettative negative, rendendoli non affidabili all’azione dei mercati privati. La lista di questi tipi di investimenti, materiali e immateriali, è nota da tempo e contiene quegli investimenti che, oltre a rilanciare la domanda, generano il fenomeno del “crowding in”, cioè aumentano il rendimento degli investimenti privati e non provocano l’effetto contrario di spiazzamento (crowding out).
Ernesto Felli e Giovanni Tria

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