Dopo oltre due anni dalla sua ascesa al potere, Xi Jinping è il leader indiscusso della Repubblica popolare (foto LaPresse)

Il nuovo timoniere

Eugenio Cau

Xi Jinping vuole lasciare una traccia nella storia. Nazionalismo spinto e ortodossia ideologica per sognare l’egemonia planetaria. Nessun leader è stato efficace quanto lui nell’ultimo anno, nemmeno il presidente della Russia Vladimir Putin.

Chiedete a qualcuno mediamente informato chi è stato l’uomo più influente dell’ultimo anno e vi risponderà Vladimir Putin. Chiedete a un osservatore della Cina cosa pensa del gioco delle influenze, e vi dirà che il teorema Putin non regge. Guardatelo il presidente russo, vi diranno. Ha fatto il duro in Ucraina e sfidato l’occidente, ma i suoi successi sono paragonabili a quelli del bullo che vince una rissa da bar perché gli avversari sono ubriachi (la metafora l’ha suggerita il giornalista Arthur Kroeber su China File). Poche settimane dopo il culmine delle sue vittorie geopolitiche, l’annessione della Crimea, Vladimir Putin stava già offrendo gas a prezzi stracciati al presidente cinese Xi Jinping. E oggi, con l’economia russa in dissesto a causa delle sanzioni internazionali e del crollo del prezzo del petrolio, se c’è qualcuno che merita lo scettro del leader più efficace questo è proprio Xi. Che non ha fomentato nuove guerre fredde e ha giocato una partita lenta e strategica. Ha firmato con l’America un accordo sul clima di dimensione storica, ha portato la Russia nella sua sfera d’influenza, cerca di imporsi con un piano multimiliardario di investimenti come potenza egemone nell’area asiatica, e questo mese davanti ai paesi dell’America latina in crisi di liquidità ha messo in chiaro che la Cina è l’unica in grado di finanziare (e sfruttare) l’estrazione delle immani risorse naturali del continente. Dopo oltre due anni dalla sua ascesa al potere, Xi Jinping è il leader indiscusso della Repubblica popolare, e ormai è possibile indovinare quali saranno le caratteristiche della sua Cina, i suoi piani e i suoi progetti. Per noi che abitiamo in occidente, non sono rassicuranti.

 

Nessun capo di stato può rivaleggiare con Xi Jinping nelle metafore politiche. Il presidente cinese in oltre due anni al potere ha riempito il discorso pubblico di tigri e di mosche, cavalli e leoni, di immagini bucoliche, usanze contadine e abitudini guerresche. La retorica di Xi è fiorita come non lo era quella di nessun leader cinese dai tempi di Mao, e con le immagini vivaci dei discorsi di Xi sono già stati riempiti dei libri. Uno è “The governance of China”, il mattone che contiene i discorsi di Xi da presidente e ha tra i suoi lettori affezionati Mark Zuckerberg di Facebook. Altri volumi sono più di nicchia e dedicati al mercato cinese, come “Accessibile: lo charme delle parole di Xi Jinping”, dove la parola “accessibile” contiene i caratteri “jin” e “ping”. Il sito Women of China, che ha tanto charme quanto le parole di Xi, ha scritto nella recensione del libro che il “linguaggio diplomatico” del presidente è “semplice e vivido e pieno di verità profonde”.

 

Lo scorso ottobre Xi ha tenuto a Pechino un simposio con “i migliori autori, attori, sceneggiatori e ballerini del paese”. Nel salone decorato con un gigantesco paesaggio della Muraglia cinese, ad ascoltare Xi non c’era quasi nessuno che a occhio avesse meno di settant’anni. I venerandi artisti erano accorsi a Pechino per ascoltare le parole del leader sull’avanzamento culturale del paese, e accogliere i suoi consigli paterni. E’ una tradizione che risale agli inizi del governo comunista, ma per un regime come quello cinese, che reprime la libertà di stampa e di espressione e imprigiona gli artisti che come Ai Weiwei si esprimono in favore delle riforme politiche, tenere sempre sotto controllo le espressioni artistiche e culturali è anche una necessità. Il presidente ha usato la sua famosa retorica, e questa volta il tema era naturalistico: “L’arte dovrebbe essere come il sole che splende in un cielo azzurro e una brezza primaverile che ispira le menti, scalda i cuori, innalza il buongusto e spazza via gli stili indesiderati”. Xi ha seguito il copione, ha detto che l’arte deve servire il popolo e il socialismo, che la cultura cinese non si deve sottomettere alle influenze che vengono dall’estero, ha parlato degli “strani edifici” dell’architettura contemporanea. Poi ha chiesto a due dei presenti di alzarsi. Erano due ragazzi sui trent’anni, tra i pochissimi nella platea. Bisogna prendere questi due ragazzi come esempio, ha detto Xi, elogiando le loro “energie positive”. La cultura, in Cina, dovrebbe essere così.

 

I due ragazzi, Zhou Xiaoping e Hua Qianfang, sono due blogger famosi, i loro articoli parlano di Cina e di mondo, e hanno una caratteristica invariabile: un nazionalismo violento e sconsiderato. Zhou Xiaoping, il più famoso dei due, ha scritto che l’America sta combattendo una Guerra fredda contro la Cina, che il modo in cui l’occidente tratta il popolo cinese ricorda quello in cui i nazisti trattarono gli ebrei, che l’America ha “massacrato e depredato” la Cina fin dal Diciassettesimo secolo (quando l’America ancora era un’entità evanescente, ma tant’è). Nei suoi articoli, spesso pieni di errori storici e teorie del complotto, attacca il Giappone, e predice l’ascesa inevitabile della nazione cinese come egemone nel mondo. Quando gli osservatori internazionali hanno ricevuto notizia delle lodi esplicite del presidente Xi allo sciovinista Zhou, hanno avuto un brivido: è dunque questa la Cina di Xi? Zhou e il suo nazionalismo da quattro soldi parlano a nome del presidente cinese? Non è esattamente così, si sono affrettati a spiegare gli esperti, quello del nazionalismo dei giovani è semplicemente uno dei tanti fenomeni che Xi deve tenere in considerazione. Ma l’endorsement pubblico del presidente resta, e che qualcosa stia cambiando nella Cina di Xi è opinione comune tra tutti gli esperti.

 

Come ha ricordato Carl Mintzer in un op-ed pubblicato sul Los Angeles Times, quando alla fine degli anni 70 Deng Xiaoping iniziò l’èra delle riforme e pose fine all’isolamento internazionale della Cina voluto da Mao, disse che per Pechino era venuto il momento di “aprire le finestre per far entrare aria fresca”. Ai tradizionalisti preoccupati per la stabilità del regime rispondeva che era normale che insieme all’aria “entrasse qualche mosca”, ma non c’era da preoccuparsi. Ora Xi sta richiudendo le finestre, e un primo modo per accorgersene è la stretta a livello di ideologia e propaganda avvenuta in questi due anni. L’endorsement alle tirate nazionaliste di Zhou Xiaoping è solo un esempio. Il rinnovato controllo ideologico di Xi Jinping gira intorno a un documento riservato, denominato “Sulla situazione nella sfera ideologica”, o più semplicemente “documento numero 9” e fatto trapelare da un giornalista che poi è stato processato e condannato duramente. Il documento 9, svelato ad agosto 2013 dal New York Times, elenca sette pericoli che potrebbero distruggere il regime comunista cinese, e porta l’indubbio imprimatur di Xi Jinping. Tra questi ci sono la “democrazia costituzionale di tipo occidentale”, i “valori universali”, l’indipendenza dei media. “Le forze occidentali ostili alla Cina continuano a infiltrare costantemente la sfera ideologica”, recita il documento, che raccomanda misure durissime per ristabilire il controllo su media, cultura, forme d’espressione. Dopo il documento 9, sono arrivati innumerevoli segnali del fatto che le maglie del Partito si stessero stringendo. “Oggi la Cina si sta chiudendo lentamente su se stessa”, ha scritto Mintzer. “I nuovi slogan del Partito insistono sulla cultura e sui valori ‘tradizionali’. Il linguaggio del confucianesimo è sempre più invocato per legittimare una nuova dinastia di imperatori rossi”. I media sono stati colpiti e internet è stato represso. Gli utenti dei social media hanno subìto censure e arresti. Quando è stato colpito Weibo, un prodotto simile a Twitter, gli utenti gelosi della loro libertà di parola si sono spostati sulle chat private di WeChat, ma le ingiunzioni del governo li hanno raggiunti anche lì.

 

Di recente, ha scritto il New York Times, un altro documento, questa volta non filtrato al pubblico, ha iniziato a diffondersi nell’élite del Partito. Il “documento numero 30”, oltre a rafforzare il rifiuto dei valori occidentali pone un nuovo obiettivo al controllo ideologico del Partito, l’educazione. Le università sono un’incubatrice delle idee liberali ispirate all’occidente, e devono essere purgate da queste idee pericolose. Le istituzioni educative devono “sopportare il peso di apprendere e ricercare la diffusione del marxismo”, ha detto Xi in un discorso tenuto alla fine dell’anno scorso, e queste dichiarazioni, insieme alla diffusione nelle accademie del documento 30, hanno spaventato i professori, che ormai sono abituati a vedere le loro classi piene di studenti stranieri, e i loro istituti gemellati con gli atenei di tutto il mondo. Ricadere nell’ortodossia marxista non è esattamente quello che ci si aspetta da una grande potenza che si sta espandendo nel campo della ricerca scientifica, ma Xi ha parlato chiaro, le università devono “rafforzare e migliorare il loro lavoro politico e ideologico”. L’ideologia nell’istruzione si sente forte anche all’estero, in America e in altri paesi sono state chiuse diverse sedi dell’Istituto Confucio, pensato per diffondere la cultura e la lingua cinesi ma diventato, secondo l’Amministrazione americana, veicolo di propaganda. Il Times scrive che è dai tempi di Mao che la fazione di sinistra all’interno del Partito comunista, quella ortodossa e rigida e contraria a ogni apertura, non se la passava così bene. “Gli ideologi maoisti sono in ripresa”, scrive il giornale, e il merito è del presidente Xi. Bill Bishop, uno dei migliori osservatori di Cina in circolazione, pochi giorni fa ha scritto su Twitter che è “la chiusura ideologica in corso”, non il debito né le altre grane economiche “la maggiore minaccia alle prospettive di riforma economica della Cina”.

 

A Pechino c’è un nuovo clima in cui si coniugano controllo ideologico e rigore nazionalistico, e quest’ultimo è una delle cifre più rilevanti della Cina di Xi. Il nuovo nazionalismo cinese è in parte revanscismo, in parte sentimento anti straniero, e in patria si esprime attraverso l’ideologia, i blog come quello di Zhou Xiaoping, e i giornali di Partito che con foga crescente riversano sulle “forze straniere ostili” qualsiasi accusa. Anche alcuni dei concetti chiave della presidenza di Xi, come quello del “sogno cinese”, espresso fin dai giorni del suo insediamento, nascondono elementi di nazionalismo: se il “sogno americano” era il diritto di ogni cittadino di perseguire la felicità, il “sogno cinese” è il diritto di una nazione di ottenere il posto che le spetta nel mondo.

 

All’estero questo nazionalismo si esprime in una politica estera aggressiva e muscolare. Lo scorso giugno la Cina ha pubblicato una nuova mappa ufficiale del paese in cui con una grande linea rossa dichiarava propria la gran parte del mar Cinese, inglobando acque e isole contese con Giappone, Vietnam, Filippine. La contesa con il Giappone per le isole Senkaku non accenna a placarsi, e se allo scorso vertice Apec Xi ha stretto la mano al premier giapponese Shinzo Abe, gli esperti sono scettici sul reale valore del gesto.

 

[**Video_box_2**]Il nazionalismo è sempre stato un’arma a doppio taglio per il regime cinese. E’ stato un movimento nazionalista nel 1919, a detta dello stesso Mao Zedong, a preparare il terreno per l’avvento della rivoluzione comunista (già allora si bruciavano in piazza prodotti giapponesi), ma da quel momento le proteste nazionaliste sono sempre state viste con sospetto. In un libro uscito di recente (“Powerful Patriots: Nationalist Protest in China’s Foreign Relations”), Jessica Chen Weiss dell’Università di Yale ha scritto che, al contrario di quello che dicono i media occidentali, le proteste di piazza organizzate dai movimenti nazionalisti non sempre sono spinte dal governo. Quando a Pechino i cittadini protestano contro il Giappone, o annunciano boicottaggi delle auto Toyota, il Partito è compiaciuto e preoccupato al tempo stesso. La protesta può sostenere i suoi obiettivi, ma quasi sempre i manifestanti criticano anche il governo per non essere abbastanza duro contro i nemici stranieri, e questo per la stabilità del Partito è un pericolo. Il regime cinese e i movimenti nazionalisti hanno sempre avuto un rapporto complesso, di sostegno e repressione, ma sembra che ora Xi Jinping abbia riaperto le porte al nazionalismo anche nel discorso pubblico. Per Xi e per la leadership del Partito “Il sentimento anti straniero è una mera necessità politica”, ha detto al New York Times lo storico liberale e dissidente Zhang Lifan. “L’establishment politico ha bisogno che la gente sfoghi la sua rabbia contro i paesi stranieri”. Ma anche così, gli effetti del nazionalismo cinese non si vedono solo in patria, questa settimana il Giappone ha presentato il più alto budget militare di tutta la sua storia democratica, in gran parte per rispondere alla minaccia crescente della Cina.

 

Dentro al Partito comunista, si dice che Xi Jinping sia ossessionato dall’idea di lasciare una traccia nella storia. Che legga continuamente le biografie dei grandi leader, che abbia un interesse maniacale per la figura di Deng Xiaoping, il leader che ha traghettato la Cina nella prosperità del dopo Mao. “Xi cerca di conquistare il suo posto nella storia come uno dei grandi del Partito”, ha detto uno dei membri dell’aristocrazia comunista al giornale di Hong Kong, il South China Morning Post. Xi è già il più potente leader cinese dai tempi di Deng, come ha scritto Elizabeth Economy in un saggio apparso sull’ultimo numero della rivista Foreign Affairs la sua è una presidenza “imperiale”. Xi ha concentrato su di sé molti poteri, ha centralizzato il governo, ha assunto cariche non solo a livello economico, ma anche militare e strategico (ha preteso che l’alto comando dell’esercito gli giurasse fedeltà personalmente, cosa accaduta in precedenza solo tre volte in tutta la storia cinese). Ha messo in moto una guerra contro la corruzione dentro al Partito che ha già messo sotto indagine, ha scritto il Financial Times, 250 mila funzionari di ogni grado, e sta facendo piazza pulita dei nemici interni. Sta avviando una specie di culto della personalità, venendo meno all’uniformità tradizionale della leadership del Partito.

 

La stretta ideologica sul nazionalismo fa parte del progetto di Xi di diventare il grande leader di una grande Cina. Nel paese i dissidenti e gli ideologi liberali, alcuni dei quali avevano gioito davanti ai propositi riformatori espressi da Xi all’inizio del suo mandato (le riforme ci sono state, alcune stanno riscuotendo grande successo, ma sono limitate all’ambito economico), ora temono che l’accento sul nazionalismo e l’accentramento del potere facciano di Xi un leader più autoritario dei suoi predecessori. Per quelli come il blogger Zhou Xiaoping, un leader dittatoriale è nella natura delle cose. La leadership comunista promette da anni che il risveglio della potenza cinese sarà pacifico, e la transizione tra superpotenze mondiali avverrà senza scossoni. Lo promette in continuazione anche Xi, per ora non possiamo fare altro che credergli.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.