La dittatura dei #

Redazione

L’hashtag è come un selfie con l’inquadratura giusta: una falsità

Siamo tutti parte di qualche cosa, in questo mondo scandito da campagne via hashtag, al punto che non riusciamo più a comunicare senza infilare qualche cancelletto (per chi ancora non si è piegato al regime delle emoticon è una gran bella via di fuga), che fa moderno e impegnato – anche se chi si sente giovane sbaglia: i teeneger lo disertano, Twitter. Allora eccoci qui: #piantiamola. C’è un che di ridicolo in quei musi tristi che accompagnano ogni immagine relativa a #BringBackOurGirls, massimo sfoggio di “glam engagement”, la causa giusta, un buon pretesto per un selfie intenso, con l’inquadratura che valorizza lo zigomo. Le ragazzine, dicevano ieri le televisioni americane, non soltanto non sono state né individuate né portate indietro, ma anzi sono usate da Boko Haram come attentatrici, piccole studentesse da sacrificare per uccidere altre studentesse o negozianti o madri o padri, insomma, nigeriani. #JeSuisCharlie suona già così abusato e stantìo, che ormai vanno di moda le sue varianti, come se fosse una questione semantica, o dell’hashtag più intelligente, e non quel che è (o era): una battaglia di libertà. Ieri Vox.com diceva che anche con la crisi di Ferguson – l’uccisione da parte di un poliziotto del diciottenne nero Michael Brown – è andata così: uno degli hashtag più famosi, #blacklivesmatter, ha avuto un successo tanto straordinario (in termini di follower, non molto altro) quanto effimero.

 

Certo, non s’è mai parlato tanto di alcune questioni che altrimenti sarebbero rimaste confinate nei soliti circuiti autoreferenziali dei media, e questo è positivo. Ma se poi un hashtag diventa come un filtro di Instagram per camuffare i colori orrendi della normalità, allora #piantiamola.

Di più su questi argomenti: