Sergio Marchionne (foto LaPresse)

Tu chiamale rivoluzioni

Così Marchionne sfida la vulgata del deserto industriale meridionale

Alberto Brambilla

La rivincita dell’ad con il pullover, oltre a Camusso e Landini, investe chi da tempo dipinge un mezzogiorno arretrato e deindustrializzato. A Melfi si torna ad assumere per la prima volta dal 1995, diventerà la seconda fabbrica d’Italia. Occasione di riscatto per l’establishment politico del sud.

Roma. La vulgata pauperista che dipinge il sud come un deserto industriale è un’antica compagna del dibattito meridionalista. Vi si scontrò pure Luigi Einaudi in uno dei suoi ultimi articoli per il Corriere della Sera nel 1960 (“Il mezzogiorno e i tempi lunghi”). Invitava i lettori a considerare che il progresso del sud “se correttamente misurato” era tutt’altro che insoddisfacente. Nello svolgimento, poi, lo statista osserva che non è certo dall’opera del pubblico o dei privati dell’epoca che arriverà sviluppo immediato ma serviranno scadenze lunghe. I tempi delle “opere veramente feconde”, ovvero “giustizia, sicurezza, ordine, libertà” cioè quelle che – come scritto nel saggio “L’economia reale del Mezzogiorno” (il Mulino) dal quale è tratto questo passaggio – rappresentano quel complesso di infrastrutture giuridiche e sociali chiamato “libero mercato”, la base per creare fitti agglomerati industriali. Einaudi venne etichettato come “vecchio conservatore” perché controcorrente rispetto alle convinzioni dei dotti. A distanza di cinquant’anni, il suo ragionamento trova giustizia nell’annuncio della Fiat-Chrysler Automobiles di assumere 1.500 persone nello stabilimento di Melfi in Basilicata – la prima infornata dal 1995 – che diventerà la seconda fabbrica d’Italia. Un nuovo clima nelle relazioni industriali a lungo ricercato dall’ad Sergio Marchionne ha motivato la svolta, una buona notizia per il mezzogiorno. Catastrofisti avvertiti.

 

La decisione a sorpresa della Fiat-Chrysler Automobiles di tornare ad assumere personale nello stabilimento di Melfi in Basilicata ha costretto camussiani e landiniani ad abbozzare e a ringraziare a denti stretti l’ad Sergio Marchionne. Una rivincita per il manager italo-canadese e soprattutto una sfida diretta alla visione pauperistica del meridione, propalata dai giornali mainstream, come fosse una landa ineluttabilmente destinata alla morte produttiva. La settima casa automobilistica al mondo, insomma, ha annunciato l’assunzione di mille operai nei prossimi tre mesi, con buste paga più consistenti, per soddisfare la richiesta globale di Jeep Renegade e Fiat 500X, investendo un miliardo di euro a Melfi, dove dal 1995 non si assumeva nessuno. Significa che per quanto il mezzogiorno sia reduce da due choc consecutivi – la globalizzazione e la crisi economica – che ne hanno ridotto la produzione di valore (nel 2010 il valore aggiunto della manifattura meridionale era superiore a quello di Finlandia, Danimarca, Portogallo e Grecia prese singolarmente) e ridotto la popolazione attiva, le potenzialità come macroregione industriale ed esportatrice si sono conservate. Secondo il professore di Storia dell’industria dell’Università di Bari e membro del Centro studi Confindustria Puglia, Federico Pirro, “questa volta è sperabile che tutti coloro i quali presentano il mezzogiorno alle soglie della desertificazione industriale abbiano modo di ricredersi – il velato riferimento va alla Svimez di cui il nostro interlocutore è consigliere di amministrazione in rappresentanza della regione Puglia, dissidente rispetto alla visione catastrofista spesso offerta dall’ufficio studi – considerando il significato profondo dell’annuncio circa il massiccio aumento occupazionale previsto per lo stabilimento lucano e le condizioni strutturali preesistenti che l’hanno reso possibile, cioè l’investimento da 1 miliardo di euro per rinnovare le linee produttive”.

 

Gli effetti occupazionali andranno oltre i confini della Basilicata. I sindacati confederali sostengono che oltre il 10 per cento del totale dei dipendenti, ovvero 600 addetti circa, arriverà dalla vicina Puglia, da decine di comuni delle province di Foggia, Bari e Barletta-Andria-Trani. A beneficiare delle commesse saranno le imprese dell’indotto, dalle forniture meccaniche alle materie plastiche, che ora contano su duemila addetti con ricaschi occupazionali significativi. “Le mille persone di Melfi si trascineranno un numero moltiplicatore da sette a dieci posti di lavoro”, ha detto l’ad Sergio Marchionne dal salone dell’auto di Detroit, prevedendo quindi da sette a diecimila posti in più nelle imprese ancillari. Previsioni forse generose quelle del manager italo-canadese che si confrontano con quelle più contenute dei sindacati aziendali, ovvero mille nuovi addetti.

 

Con la spinta dello stabilimento lucano, l’asse industriale-manifatturiero del paese pende – ancor più di prima – verso il meridione, dove si concentrano le tre più grandi fabbriche italiane per numero di impiegati. Ovvero la Sata di Melfi (6.500), prima fabbrica Fca in Italia e seconda in assoluto dopo l’acciaieria Ilva di Taranto (11.480) – il cui destino resta incerto nonostante un nuovo decreto governativo, per ora solo teoricamente salvifico, licenziato il 5 gennaio (l’ultimo nel novennato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dimessosi ieri) – la Sevel (6.106) a Val di Sangro (Abruzzo) che sforna veicoli commerciali Fiat. Per non parlare del trasferimento di almeno 350 unità dagli stabilimenti di Cassino e Pomigliano d’Arco, dove si produce la Nuova Panda.

 

[**Video_box_2**]L’establishment lucano ha applaudito all’inattesa decisione di Marchionne – nessuno era stato avvertito del “miracolo” – e ora in molti si interrogano su come sfruttare al massimo la fiducia accordata. D’altronde una delle sindromi meridionali più autolesionistiche – un corollario del sistematico svilimento psicologico delle risorse economiche endogene – nasce dal “sospetto che l’indifferenza, talvolta l’ostilità, che i territori di insediamento [delle aziende], guidati da istituzioni estrattive piuttosto che inclusive, possono avere mostrato verso il successo della singola impresa ne abbiano infine impedito la trasformazione in duraturi ecosistemi manifatturieri”. Ovvero avere ostacolato la creazione di poli industriali iper-connessi e possibilmente dialoganti. Per smentire questa lunga affermazione di Giovanni Iuzzolino, direttore della divisione analisi e ricerca economica territoriale della sede di Napoli della Banca d’Italia, bisognerà guardare a come le amministrazioni sincronizzeranno la rivoluzione marchionnesca con la ricerca tecnica che l’inserimento di Melfi nel contesto competitivo globale impone (Jeep Renegade e Fiat 500X saranno vendute in cento mercati). E’ nel Campus tecnologico di Melfi che si progetteranno nuovi modelli per ridurre i consumi dei prodotti finiti e diversificare le produzioni in linea con le direttive del metodo World class manufacturing, quello usato da Fca negli stabilimenti americani con l’obiettivo di ridurre i costi e tagliare gli sprechi sulla catena produttiva. Il Campus già finanziato è nato nel 2005 ma, dopo ritardi e rinvii, i lavori procedono a rilento in cantiere.

 

“In passato la propulsione è sempre arrivata dalle grandi imprese pubbliche, il fatto che stranieri e italiani investano quando si creano le migliori condizioni, vedi farmaceutica, energia, aeronautica e ora Fiat, dimostra che non siamo condannati alle prospettive di desertificazione e al pianto costante come stereotipicamente viene raccontato”, dice Marco Fortis, economista di Edison curatore della raccolta “L’economia reale nel mezzogiorno”. Fortis, che è anche consigliere personale del premier Matteo Renzi, spera perciò che dal combinato disposto dell’impatto sistemico dell’azione di Fca e dall’ammorbidimento dei vincoli bilancisti della Commissione europea (vedi articolo in basso) scaturirà “la chance di impiegare i finanziamenti europei per la formazione di personale giovane e qualificato nell’industria in aree più complicate del sud”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.