Adel Abdul Bary, il rapper inglese conosciuto come Lyricist Jinn, passato tra le file dello Stato islamico

La voce del terrore

Stefano Pistolini

Non solo Parigi. Come e perché il rap ha offerto al jihad un grande ed esportabile arsenale espressivo.

Non appena negli anni Cinquanta si è cominciato a parlare con un minimo di serietà della nascente categoria dei “giovani” – d’improvviso accreditati di un peso sociale e soprattutto di una capacità di orientamento dei consumi – la musica è stata subito identificata come il linguaggio originale e autonomo a disposizione di questi novellini per far sentire le loro ragioni e condividerle all’interno del gruppo. E’ durata una trentina d’anni. La “pericolosità” della musica giovanile come codice esoterico e incontrollabile, generato inizialmente dal rock’n’roll, poi specializzatosi in forme espressive più specifiche – punk, hip hop, funk, techno – poco alla volta poi si è allentata, in sincronia con una serie di dinamiche parallele: l’intervento dei mercati ufficiali, pronti a pagare per disporre dei nuovi bacini di produzione e consumo; la progressiva omologazione dei prodotti, con una prevalenza sempre più marcata delle forme sui contenuti; la crescente abitudine dei consumatori al prodotto, con un inevitabile indebolimento del “messaggio”; il devastante avvento di altri formati di condivisione, legati al web e alle nuove forme di socializzazione e comunicazione, che hanno marginalizzato la musica come fattore significante e rappresentativo nel repertorio culturale delle nuove generazioni. Certo, la questione del rap ha continuato a destare interesse: attraverso questa forma espressiva che mantiene la parola, i simboli e i significati al centro del proprio intento, in effetti si andava in controtendenza, rispetto al ruolo “decorativo” che si poteva attribuire alla musica del nuovo millennio. Ma la questione, in un primo momento, veniva risolta sulla base di assiomi disinvolti: prima di tutto, il rap canalizzava artisticamente i bisogni degli ultimi romantici alle prese con la musica, funzionando da valvola poetica della autorappresentazione.

 

E poi, quanto al consumo, il rap si affermava soprattutto come un complesso sistema di codici di riconoscimento, nei quali adolescenti e post adolescenti reperiscono quell’arsenale di rappresentatività di cui hanno bisogno – dal modo di vestire a quello di parlare, dal frasario condiviso agli slogan di riferimento. Tutto a posto, dunque? Tutto sotto controllo? Macché. Non sarà mai così. Non si arriverà mai all’auspicato momento di quiete in cui una cultura mainstream potrà sentirsi sicura di non avere un serpente sovversivo che si sta rapidamente evolvendo nelle sue viscere. Dal momento che la musica non smette di coinvolgere e far godere i suoi giovani consumatori, non passerà mese che non se ne inventerà un utilizzo imprevisto, scomodo, inatteso e potenzialmente pericoloso. Per esempio, non si può fare a meno di notare come le tragiche cronache del jihad siano oggi disseminate di notizie che rimandano, a prima vista inopinatamente, al mondo del rap. Le affinità tra i due mondi – sia pure su piani diversi: contemplativo e celebrativo quello rap, nevroticamente teso al gesto clamoroso quella del jihad – apparentemente esistono e sono esposte, a cominciare dai sentimenti d’insoddisfazione e insofferenza da cui entrambi sono animati, di privazione e ingiustizia, dall’estetica di fatalismo autodistruttivo e disprezzo verso il valore della vita. Certo, il contesto generale è diverso – tra la rivendicazione della supremazia islamica del jihad e la narrazione del vivere nella parte sbagliata di una delle tante società occidentali che ha generato la cultura hip hop, con tutto il relativo patrimonio di revanscismo e riscatto e anche con il repertorio di valori originali, come il rispetto, la fratellanza e la sublimazione attraverso lo storytelling e il signifying. Un universo eminentemente stilistico contrapposto a uno tragico, martirologico, di confronto fisico, esperienza mistica, giustificazione dell’orrore. Però la contiguità esiste. Tanto più motivata e lubrificata proprio dai metodi di circolazione istantanea oggi a disposizione di tutti. In sostanza, il rap ha offerto alla Jihad un arsenale espressivo adottabile, raggiungibile e pronto a essere utilizzato per entrare in contatto col vastissimo mondo giovanile che già lo utilizza e lo condivide. Un mondo nel quale, come nel jihad, spesso l’individualismo finisce per disciogliersi nell’etica del gruppo e dove il ruolo più desiderabile per il singolo è quello, affascinante, dell’esempio, del “modello” – un fattore assodato della cultura hip hop. Poi, ovviamente, c’è una potenziale contiguità che arriva dalla questione degli stili di vita, che oggi costituiscono il principale terreno di confronto per chi abbia attorno ai vent’anni. Il rap è la musica dei non-allineati, di coloro che lo sono veramente, e per coloro che desiderano esserlo solo da un punto di vista estetico. Il rap esprime differenza, distinzione, scontento, presa di posizione, identificazione, riconoscimento. Il rap nasce nei quartieri difficili delle metropoli americane, ma presto diviene il suono dei ghetti delle città europee, nordafricane, africane, mediorientali. Il rap presenta, fin dalle origini, una sostanziale componente musulmana. Alcuni dei rapper della vecchia scuola americana sono nati e cresciuti musulmani: Krs One, Ice Cube e Jay-Z e tanti altri come loro. Il rap subentra al gospel come cantico spirituale di una condizione – primariamente quella dei fratelli neri, si tratti degli indottrinati di Farrakhan o dei teenager senza etichetta di un project di periferia. Comunque non c’è una fase di adozione o di conversione: da subito il rap lascia convivere appartenenze religiose diverse, diversissime tra loro – la religione di Maometto e quella dell’Ak-47 del gangsta rap, ad esempio. Non si sollevano mai particolari proteste per questa contiguità. Il primo rap parla americano, ma dal momento che la sua regola è quella della rima e del messaggio poetico spontaneo, la sua conversione in francese, spagnolo o arabo avviene quasi istantaneamente, già quando ancora corrono gli anni Ottanta. E’ facile, è naturale, sempre fatto apposta per partecipare al presente. Il rap vive sul principio secondo il quale ogni rap è un contenuto poetico spontaneo, che attende di essere rappresentato. I suoi contenuti sono quelli della realtà e i suoi esecutori sono infiniti, perché non esiste una reale demarcazione tra un rap “professionale” e uno amatoriale: le categorie del “recording artist” sono ormai andate in soffitta e chiunque ne abbia voglia può postare un video o un file in rete, con le sue rime e i suoi pensieri. Poi, chissà: parlare di rapper di successo e di rapper falliti è un’errata attribuzione di categorie di giudizio. Il rap resta comunque una forma espressiva, prima che un comparto di mercato.

 

Dunque il rap arriva al presente come uno specchio della realtà, ben lucidato e di dimensioni globali: si parla delle cose di cui vale la pena di parlare, anche di vita e di morte, anche di fede e di guerra. E al rap accedono più facilmente tutti coloro che hanno tempo da perdere, deficit d’identità, bisogno di confronto e di riconoscimento. Il rap inoltre è un veicolo sicuro per farsi ascoltare in certi ambienti, per chiarire la propria appartenenza e i propri intendimenti: è quindi puerile sorprendersi che i video autocelebrativi o di reclutamento del jihad, compresi i più truci e sofisticati messi in circolazione dall’Is, siano oggi generosamente conditi di suoni rap. Rafforzano il messaggio e richiamano un’audience peraltro già sintonizzata. E chi vende va là dove c’è un potenziale pubblico di consumatori. Anche se ciò che vendi è un’ideologia estrema.

 

[**Video_box_2**]A questo punto arrivare alle cronache degli ultimi tempi è una conseguenza di quanto detto: Adel Abdul Bary, quasi certamente il boia delle decapitazioni del reporter James Foley e di altri ostaggi occidentali, nella sua prima vita nel Regno Unito si dilettava di rap, si faceva chiamare Lyricist Jinn e cercava di farsi notare con le sue rime, in cui cantava di “mani insanguinate” e di “angeli e demoni”. Prima, per qualche anno, componeva rap; poi ha fatto il salto di qualità. Il rap è stato il suo incubatore? No, è ridicolo pensarlo: il rap per un po’ di tempo è servito a quietare le sue deliranti ansie di partecipazione al procedimento di purificazione del mondo. Poi non è bastato più, e Lyricist Jinn è passato a fare il presentatore delle più bestiali esecuzioni a cui l’occhio umano possa assistere. Denis Mamadou Cuspert invece viveva in Germania e faceva il rapper col nome d’arte di Deso Dogg. A un certo punto ha cominciato a modificare i suoi rap in nasheed, ovvero in canti d’ispirazione islamica. In sostanza ha traslato il suo turbamento intellettuale e religioso in una contaminazione musicale. Poi ha rotto gli indugi ed è partito per la Siria, a combattere con l’Is, nel nome del quale si è fatto ammazzare. Anche in Italia l’apparentamento ha degli esempi: Anas El Abboubi, viveva a Brescia, monitorato dalle autorità per le sue simpatie filo-jihadiste, espresse in rap le cui rime dicevano “Voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata”. Di recente è stato segnalato ad Aleppo, fotografato mentre abbraccia il suo kalashnikov. Ha assunto il nome di Anas Al Italy e ha deciso di abbracciare la sharia. Anche ai fratelli ceceni Tsarnaev, titolari della strage alla maratona di Boston, piaceva il rap e il gusto di cimentarsi con gli amici a chi la sparava più grossa, modulando sul ritmo di un beat. E Cherif Kouachi, uno dei due fratelli franco-algerini responsabili del massacro al Charlie Hebdo, già nel 2005 appare in un documentario televisivo nei panni del rapper, o meglio del giovane confuso in cerca di scopi e di definizioni, che si dichiara “pronto al martirio” e gioca coi versetti coranici, coniugandoli con la birra, l’erba e una vita sciamannata nel 19esimo arrondissement. Un tempo si parlava di alienazione. Oggi si evoca il clash culturale tra set dei valori della società occidentale e revanscismi bigotti dell’insoddisfazione araba. Colonna sonora: ovviamente il rap e molte frasi fatte. Quando venne arrestato Cherif disse al giudice che lo scandalo di Abu Ghraib e le parole di un giovane chierico lo stavano convincendo a lasciar perdere il rap e a prepararsi per qualcosa di più importante. Non venne preso sul serio, ma questo è un altro discorso.

 

Avete presente l’infida teoria sull’“accentuare le contraddizioni”? Il martello di certi slogan rap che oggi bombarda un’audience predisposta a seguirne le logiche, certamente contribuisce ad accentuare le contraddizioni e ad agevolare il traghettamento. Fatevi un giro su www.muslimrap.net se volete dare un’occhiata al brodo culturale in cui tutto ciò può potenzialmente prendere forma. Coniugatelo con il coatico marasma informativo ed emotivo di un certo tipo di gioventù dissestata. Chi tiene le fila del jihad, d’altronde, è perfettamente sintonizzato coi possibili impatti emotivi e coi linguaggi condivisi da coloro che potranno andare a ingrossare le sue fila, o semplicemente, per ora, simpatizzare da casa. Per cui il riuso di questi suoni e di quegli stili, è diventato uno dei suoi strumenti prediletti. Ma ovviamente stiamo parlando di mezzi, non di cause. Aggirarsi tra i beat del rap, per verificare come oggi questo suono sia divenuto un luogo comune a contorno del jihad e uno strumento propagandistico e di diffusione, equivale a infilarsi in una palestra di una banlieue e spiare l’aria che tira. Questa musica, come quei pesi della Technogym, sono solo strumenti alla moda e fanno parte del gioco.

 

Il fatto è che non siamo andati molto avanti dall’atteggiamento dei nostri nonni: loro avevano paura del rock’n’roll, la musica del diavolo che faceva agitare i sederi ed evocava scopate clandestine. Bisognava proibirla, dicevano – poveri illusi. Oggi ci sorprendiamo che un terrorista, nel corso del suo noioso, rabberciato apprendistato, ascoltasse rap e lo scimmiottasse. Ma i pericoli e i potenziali guai non stanno nascosti nella hit parade. Risiedono piuttosto nel fatto che ammazzare a casaccio, sotto l’ombrello di una incontrovertibile giustificazione religiosa al confine con il misticismo, oggi sia diventato un modo di esprimersi e realizzarsi. Che improvvisamente si fa preferire alle rime intonate la sera, tutti in gruppo seduti sul muretto.

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