Il vignettista Georges Wolinski

Je suis Wolinski. Vignettista

Giuseppe Scaraffia

“Un bravo vignettista è ingiusto e in malafede”, mi diceva Wolinski, spaventato dal suo potere esorbitante. Il disegnatore più famoso di Charlie Hebdo ritratto da un amico. La gauche, le donne divine e “sgualdrinelle”, la vecchia Jaguar, i sigari, il divano di cuoio e la tv.

Quando incrociavo a Saint-Germain quell’uomo dai lunghi capelli brizzolati, che portava a spasso un cagnolino, non sapevo ancora che era Georges Wolinski, disegnatore satirico di fama internazionale, illustratore attento e ironico dei costumi sessuali dell’epoca. Poi, rapidamente, grazie alla sua cordialità, siamo diventati amici. Allora abitava insieme alla moglie, la scrittrice Maryse, in rue Bonaparte, un piano sotto di noi. Quando mi raccontava della sua infanzia ebraica in Tunisia e della dolorosa esperienza della morte violenta del padre, assassinato da un dipendente licenziato nel 1936, non avrei mai pensato che il destino avrebbe colpito con uguale durezza quell’uomo mite e tollerante, pieno di curiosità per tutto. In Francia era ed è oggi più che mai un’istituzione indiscussa. Oltre alle celebri vignette, ha scritto per il teatro e per il cinema. I titoli dei suoi album, una settantina – “Più se ne parla… meno lo si fa!”, “Io non voglio morire idiota”, “Non penso ad altro”, “Lettera aperta a mia moglie”, “Ero un fallocrate”, “Il mio corpo le appartiene” – hanno scandito gli umori di tante generazioni parigine.

 

Nel suo appartamento raffinato dalle tinte calde c’era un sapiente dosaggio di moderno e di rustico, di antico e di etnico. Sul tavolino del salotto troneggiava una piccante scultura cara a Georges: un’africana nuda dalle natiche voluttuose. Maryse, lo punzecchiava su quell’immagine di donna oggetto, ma lui continuava a esibirla. Quadri antichi e moderni si mescolavano, sulle pareti, alle foto di famiglia. Poco più si vedeva la pagina del Figaro con il “J’accuse” lanciato da Zola per l’affare Dreyfus.

 

A chi gli chiedeva come nascevano le sue vignette rispondeva: “E’ un lavoro solitario. Ci sono tre fasi: prima bisogna trovare l’argomento, poi l’idea e poi disegnare. Ma questa è la parte più facile”. Wolinski parlava con tranquilla bonarietà, scandendo le parole con gesti pacati. A volte, confessava, gli capitava di deludere gli estranei. “Posso essere divertente, ma spesso la gente mi trova piuttosto triste. Non voglio dimostrare niente a nessuno e ho sempre in mente una serie di idee in lista d’attesa. E’ il mio stress, la vita che ho scelto e che amo”.

 

Malgrado il Tank di Cartier al polso, Wolinski era rimasto caparbiamente fedele agli ideali della sua giovinezza, andava spesso a Cuba e aveva fondato un’associazione internazionale per aiutare i bambini dell’isola.

 

Nonostante le diffuse critiche a Castro, Cuba per lui restava “l’unico paese dell’America Latina in cui i bambini sono meno numerosi dei professori, ci sono più medici che malati, meno delinquenti che poliziotti e più analfabeti tra i turisti che tra gli abitanti”. Da quest’esperienza era nato l’ironico Monsieur Paul a Cuba, le avventure di un turista qualunque tra le belle isolane e i misteri della santeria, la religione cubana.

 

Gli dispiaceva un po’ l’accusa di essere ossessionato dal sesso. “Mi dà fastidio perché non è vero. Credo soltanto di essere un po’ più sincero degli altri. Il sesso ci ossessiona tutti, solo che io, nei miei disegni, lo dico. Anzi, lo rivendico. Ho sempre avuto un sesso e non me lo dimentico mai! Il che non influisce molto sulla mia vita. Vivo in modo normalissimo e non ho una smisurata attività erotica. Forse sono così perché la mia generazione non ha conosciuto la libertà sessuale. Per me le donne sono sempre state importantissime, le adoro. Le ho sempre messe su un piedestallo. Sono fatto così, sono innamorato delle donne, della mia sopratutto, ma anche di tutte le altre. Peggio per me se sono rimasto un eterno adolescente!”.

 

Sul tavolo, su cui s’affollavano libri e oggetti, avevo visto con stupore una grossa pistola, ma era solo un bellissimo giocattolo di legno. Quando gli chiedevano quali fossero le sue attività preferite, non aveva dubbi. “A parte lavorare, non ne ho molte. Mi piace leggere, cucinare durante le vacanze, ritrovarmi con i vecchi amici e dire sciocchezze con un bicchiere in mano”.

 

Sorrideva quando giornalisti gli rimproveravano di lasciarsi cullare dalla fama e dagli agi. “Le mie idee sono sempre le stesse: sono di sinistra. Cerco di non evolvermi”. Eppure, quando aveva lasciato L’Humanité, il quotidiano del partito comunista francese, era stato accusato di essere un provocatore imborghesito. “Provocatore sicuramente. Borghese, lo sono sempre stato. Mi piacciono i bei vestiti, la buona tavola, i sigari e i viaggi. Ma non possiedo nulla, né un appartamento, né una barca o una casa di campagna. La mia auto è una piccola utilitaria”. Ma per un po’, ammetteva, aveva avuto anche una vecchia Jaguar. In effetti si divertiva a provocare i falsi moralisti: “Sono anni che vado da Cartier. Trovo che ha dei gioielli di una straordinaria distinzione! Il buffo è che proprio quelli che criticavano il mio gusto per i segni esteriori del lusso, e il mio modo di attaccare il sistema dall’interno, oggi stanno tutti nei ministeri o nel mondo della pubblicità”. A chi l’accusava di essere diventato un esponente della gauche caviar, replicava serenamente: “Meglio questo che essere di destra. Ho una sola vita e voglio approfittarne. D’altronde se dovessi vivere modestamente come le persone che difendo, sarebbe una scelta artificiosa, bugiarda”.

 

Una volta gli avevo chiesto cosa pensava della polemica sul chador, il foulard con cui le alunne islamiche tendevano sempre più a presentarsi nelle scuole francesi, suscitando le proteste degli insegnanti. “Penso sopratutto a quelle ragazze. L’importante è fare di tutto per non perdere il contatto con loro, in modo che possano sfuggire all’influenza dei padri e dei fratelli… Cacciarle dalla scuola significa rifiutare loro ogni possibilità d’emancipazione, abbandonarle.”

 

Malgrado il suo ottimismo, aveva dei momenti di malinconia quando si voltava indietro a considerare i tempi di una rivista di fumetti epica in Francia per la sua spiritosa cattiveria, Hara-Kiri. “Oggi un giornale non ha più il diritto di essere marginale. Era fantastico essere stupidi e cattivi negli anni Sessanta!”.

 

Proprio lui, che aveva creato nelle sue vignette donne rampanti e avide di sesso, confessava: “Il grande problema della mia vita è: come vivere il meglio possibile con la donna che amo?”. La donna era la bionda compagna, romanziera di successo, cui era legato da tanti anni. I due lavoravano insieme a casa. Mentre lei aveva bisogno, per concentrarsi, di chiudersi nel suo studio, Georges disegnava sulla scrivania del salotto, fumando un sigaro Davidoff e sorseggiando un whisky di marca. “Bisogna continuare a stupirsi e a sorprendersi reciprocamente”, insisteva con la sua voce pacata. Al momento del loro incontro lei era una timida giornalista agli inizi e lui un disegnatore di successo. Maryse aveva allevato le due figlie nate dalla prima moglie dell’artista, morta in un incidente, e gli aveva dato una figlia, Elsa. “Senza di lei sarei diventato grasso, sporco e alcolizzato. Ha completamente cambiato la mia opinione sulle donne. In fondo è il mio migliore amico! ”.

 

Malgrado le apparenze, in fondo Wolinski, ateo ed ebreo non praticante, non era poi così liberale: “Mi sembra che si sia andati troppo in là. Se la gente compra cassette porno, sono affari loro, ma mandare dei film osé in televisione è eccessivo. Non mi piace che i ragazzi possano credere che l’amore sia la ginnastica che si vede fare in quelle pellicole. Il sesso non è l’amore… Io credo che i limiti, le proibizioni diano un piacere supplementare. E’ tremendo banalizzare il sesso”.

 

[**Video_box_2**]Il suo mobile favorito era un grande divano di cuoio chiaro di Mies Van der Rohe. “L’ho desiderato per 25 anni. L’avevo visto in un film di Antonioni, ‘L’avventura’; lo usava Mastroianni. Poi è andato fuori diritti e io avevo più soldi di un tempo. Così me lo sono comprato…”. Lì sonnecchiava al pomeriggio. “Coricarsi di giorno richiede una vera perversità: la siesta favorisce la voluttà. Qualche volta le preoccupazioni mi tengono sveglio, ma conservo la straordinaria facoltà di poter dormire in qualsiasi situazione”.

 

Nei suoi disegni si specchiava con ironica crudezza la vita sessuale dei nostri giorni, la crisi dei maschi davanti all’evoluzione della donna. “Sono sempre stato affascinato dalle donne. Ma appartengo a una generazione perduta dal punto di vista sentimentale. Oggi però il sesso non è più un’avventura, è diventato banale. Una volta conquistare una donna aveva un senso, rappresentava uno sforzo. C’erano un codice, dei rituali… Erano tentativi pieni d’incertezza, deliziosamente angosciosi. Quando la bella soccombeva si era talmente stupiti che, spesso, la si sposava…”. Ma perché allora le sue eroine erano spesso delle sfacciate seduttrici? “Le donne devono difendersi in tutti i modi e perché non devono usare il loro corpo? Io non credo che i miei album turbino le donne. Sono loro la maggioranza del mio pubblico. Allora come lo si può spiegare? Ma perché le faccio ridere e le ascolto!”. Però le presenta spesso come delle sgualdrinelle…” “Lo sono tutte… a tratti. Lo sanno benissimo. Noi uomini siamo i deboli in questa gigantesca commedia che è la vita”. Evitava di parlare della morte: “Non cerco di capire perché disegno queste cose… La vita è talmente breve che, se mi metto a riflettere, sarò morto prima di avere capito!”.

 

Parlavamo della televisione. “Mi piace molto, però ce l’ho da poco. Una volta, quando era ancora in bianco e nero, pensavo che andasse bene sopratutto per i cretini. Oggi è diverso…”, sorrideva maliziosamente. Lui stesso d’altronde aveva preso parte a trasmissioni in cui disegnava sotto le telecamere e aveva addirittura fatto un esilarante cartone animato pubblicitario. Poi ci siamo persi di vista, la mia vita era cambiata e lui aveva cambiato casa, ma continuavamo a mandarci sporadici messaggi tramite amici comuni. Ma mi ricorderò sempre la lucidità con cui parlava del suo impegno. Non aveva dubbi: “Un bravo vignettista è ingiusto e in malafede. Il vero umorista è interamente irresponsabile…” Poi puntualizzava: “Faccio un mestiere straordinario che ha un potere esorbitante. Posso disegnare qualsiasi cosa e nessuno osa criticarmi. Talvolta mi spaventa: mi consolo pensando che non sono un porco. In altre professioni si può essere contemporaneamente un bravo professionista e un fetente. Nella mia no: si può essere cattivi, eccessivi, ma mai ingannare il lettore”.

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