Vicenzo Gallo, alias Vincino, dopo aver lavorato all’Ora di Palermo, nei primi anni Settanta si è trasferito a Roma. Dal 1995 disegna per il Foglio

A tu per tu

Discorso sulla satira

Salvatore Merlo

Chiacchierata con Vincino su un mestiere di cui è difficile tracciare i confini. “Cerchiamo i limiti per violentarli. La bestemmia è una parola d’amore perché umanizza la religione”. “Io forse quella vignetta del trenino con la santissima Trinità non l’avrei fatta. Un disegnatore di satira però deve lasciarsi vivere”.

Roma. Gli dico che le vignette di Charlie Hebdo a me non piacevano, che la bestemmia non è trasgressione ma aggressione, specie alle orecchie di un laico, di uno che come me in Dio non ci crede. Lui intanto ascolta, la testa affondata nelle spalle, sconsolato nel rievocare Wolinski, “ancora non ci credo che sia morto”, dice. Il più amato, Wolinski, perché forse per lui il più consanguineo, “con il suo tratto improbabile e tremolante”. Allora osservo Vincino con quel disagio che gli uomini non toccati da nessuna passione provano per i colpiti. E lui a questo punto risponde alla mia domanda, ricorda la vignetta di Charlie in cui si raffigurava un atto di sodomia tra Gesù, Dio e lo Spirito Santo: la bestemmia non è trasgressione, gli ripeto. “Io forse quella vignetta del trenino con la santissima Trinità non l’avrei fatta, io. Ma non ne sono nemmeno sicuro. Dentro la pochade ci sta tutto, e la gente è questo che cerca, la gente compra la satira perché cerca gli eccessi… Ma poi, che vuoi? Riflettere su se stessi, indagarsi, indagare? Un disegnatore di satira deve lasciarsi vivere. Deve disegnare”. Ma tu l’avresti disegnato Maometto chiappe all’aria? “Sul Male, ai tempi della guerra in Iran, disegnammo un ayatollah che se ne stava serio, diritto, in piedi, con un’enorme mezzaluna fallica che gli usciva dalla tonaca”. E insomma ci sono dei punti in cui la rozzezza squinternata coincide con l’arte, dice lui. “Era un disegno bellissimo di Pino Zac. Un giorno vestimmo anche una scimmia da Papa, in copertina. La satira va sempre a cercare i limiti, li violenta. Per la satira la bestemmia è una parola d’amore. Guarda che la satira umanizza. Mentre i dogmi e le religioni sono disumane. A me a volte viene il sospetto che la religione, che le religioni, siano tutte una minchiata. Il mondo ha tre religioni monoteiste che partono tutte da un pugnalamento mancato del figlio, ma ti pare normale?”. E insomma tutta la materia religiosa, racconto biblico compreso, secondo lui è di competenza del binomio Freud-Jung. “C’è forse qualcosa di più logico dell’illogico?”.

 

Riconosco Vincino dai cento metri, alto, curvo, magro come uno studente di liceo, risale via San Giovanni in Laterano a lunghi passi impigliati nel suo cappottone troppo lungo. Sulla strada rigurgitante di turisti è l’unico a indossare uno strambo cappello tubolare di lana rossa e l’espressione particolare, ilare e insieme un po’ assorta, svanita, di chi sorride a un proprio pensiero. Gli avevo telefonato dieci minuti prima. Ti fai intervistare sulla strage di Parigi? “Eh, uhm, non so”. Dài, una chiacchierata sul mestiere della satira, i suoi limiti, gli eccessi. “Sì ho capito, ho capito. Non è questo il problema. Il problema è che tu vai a pranzo con Montezemolo per le interviste. E qui vicino casa mia ci sono solo squallide trattorie per turisti. Forse non mi faccio intervistare”. E invece eccolo Vincino, curvo sul tavolo di una trattoria per turisti vicino al Colosseo, chiuso in una giacca in mezzo alla quale fruga con la mano cercando una tasca che non trova mai: sei penne, due pennarelli, una matita, un taccuino per bozzetti, occhiali dovunque. “Charlie era come il Louvre”, mi dice. “Ed è imperdonabile che non fosse difeso. I miei amici hanno pagato un prezzo pazzesco, insopportabile. E sono incazzato con lo stato francese. Il direttore di Charlie l’aveva previsto che sarebbe successo, l’aveva previsto in una vignetta questo delitto tremendo, loro sapevano di essere sotto scacco. Per noi che viviamo di satira, Charlie è stato tutto, un modello, di più. Quando facemmo il Male, con Vauro, Charlie esisteva da un pezzo, quel giornale nasce nel ’68, nasce contro De Gaulle, c’erano loro e c’era Canard che è invece un giornale più istituzionale. Charlie è satira pura, totale. Quando ho letto i nomi dei morti, quando ho capito sono rimasto di sasso. Non ci credevo, mi sono commosso, specie per Wolinski che adoravo. Wolinski aveva ottant’anni e disegnava sempre delle donne, le donne erano al centro del suo racconto, una specie di ossessione erotica”, e Vincino pronuncia queste parole con occhi che colgono senza riguardi il paradosso delle situazioni, e la comicità. Dunque aggiunge: “Ieri un mio amico, che lo conosceva bene, scuoteva la testa, quasi piangendo: ‘Wolinski avrebbe preferito morire scopando’”.

 

Una certa bizzarria fa parte del suo corredo, quasi un dovere professionale, a difesa del suo particolare ruolo e dell’unicità del suo posto nel mondo dei giornali. “Io Wolinski lo farei studiare nelle scuole”, dice dunque Vincino. “Anche Dante era un autore di satira, faceva a pezzi i suoi contemporanei, gli metteva i pali nel culo, gli dava fuoco, li immergeva nel fango. Tu dici che Charlie è volgare. Ma certo che lo è. Noi rivoltiamo l’umanità, la ridicolizziamo. E questo è il cuore della satira. Quando Moro fu rapito, quel giorno, noi del Male uscimmo con la faccia di Moro che al posto del naso aveva un enorme cazzo. Era volgarissimo. Ma il racconto di Moro, che in prigione, con le sue lettere cercava di farsi capire, in quei giorni terribili lo facemmo solo noi del Male, e molto prima e molto meglio di tutte le cazzate che in quel momento, mentre Moro era prigioniero, venivano scritte sui quotidiani. Poi arrivò Sciascia, col suo saggio, ‘L’affaire Moro’. E ogni volta che mi incontrava, Sciascia si metteva a ridere. Noi pubblicammo anche la famosa foto di Moro imprigionato che tiene il giornale sul petto. Sottotesto: ‘Scusatemi, abitualmente vesto Marzotto’. Era una vignetta che avevo fatto per Lotta Continua, ma la rifiutarono”. Forse non mi stupisce, gli dico. “La satira è uno strumento di racconto della verità”, risponde. Allora ricordo a Vincino che la verità, come diceva Don Mariano, il capomafia del “Giorno della civetta”, la verità è nel fondo di un pozzo: tu guardi in un pozzo e vedi il sole o la luna; ma se ti butti giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità. E qui Vincino mi osserva con uno dei suoi sguardi bassi e subitanei. Il suo pensiero si aggrega all’improvviso in un’emissione di parole, come per esplosioni e singhiozzi mentali, sornioni fuochi d’artificio: “Ci sono cose che voi giornalisti, voi che scrivete, non arrivate a capire, a spiegare. Per arrivarci dovete fare mille parole, merletti, giri semantici. Io invece la sparo, chiara, un disegno immediato. Puff. Si tratta di raccontare per paradossi, senza riguardo alla verità spicciola e cronistica, ma avendo l’occhio a un vero essenziale che è il senso stesso del fatto. Quando morì Giovanni Paolo I noi uscimmo con una copertina tipo giallo Mondadori: ‘Il Papa avvelenato’. Voi invece scrivete come se le parole pesassero quanto un martello pneumatico, come un martello vibrante per l’incertezza e il tremito delle mani, in una selva d’aggettivi e parole. Noi facciamo un disegno. E boom!”.

 

E certo il rapporto sessuale tra Dio e Cristo, dico a Vincino, quando ti arriva sotto gli occhi è più veloce del pensiero. Ma forse non è pensiero. E’ un rutto. E lui: “Ma noi siamo cresciuti così, Carmelo Bene pisciava sugli spettatori, noi siamo cresciuti con il Living Theatre, con la continua ricerca, la sperimentazione, l’eccesso. Zavattini andava in televisione e urlava: ‘Cazzo!’. Quando la satira coglie il sentimento di un periodo storico allora vende. Il Male è arrivato a vendere anche 160 mila copie, Cuore pure. Poi noi non siamo più riusciti a sintonizzarci con il momento. Oggi il momento storico è che l’integralismo religioso ha rotto i coglioni. E’ così che quelli di Charlie sono arrivati a vendere 400 mila copie. Guarda che solo i bigotti e i fanatici se la prendono. Una volta mettemmo una bestemmia in copertina, e fummo querelati da un’associazione cattolica di Civitavecchia: l’imputazione era di offesa a capo di stato estero, la bestemmia era rivolta a Wojtyla. Quella causa la vinsi, e sai perché? Perché il mio avvocato era bloccato nel traffico e non arrivava, allora mi fu affidato un avvocato d’ufficio e questo Carneade ebbe l’idea geniale di chiedere ai giudici che fosse chiamata a testimoniare la parte offesa, cioè il Papa in persona. Guarda che la chiesa non si offende mai, sono queste cosucce dubbie, sono queste associazioni di bigotti che si risentono. Nelle gerarchie sono troppo intelligenti, e probabilmente persino liberali per offendersi”. Diciamo che a Roma il sulfureo può anche mescolarsi con l’incenso. E gli ebrei? Anche loro sono stati bestemmiati da Charlie. “Gli ebrei hanno inventato l’humour… Ma devi sapere che la cosa più terribile di Charlie non era la satira religiosa. Una volta accadde che in Francia andò a fuoco una scuola e morirono dei bambini. Quelli allora pubblicarono una vignetta che rappresentava la scuola bruciata con accanto una scatola di fiammiferi svedesi e un cerino spento. Sotto questa scritta: ‘Ecco la formula per la gioventù bruciata’”. Non fa ridere. “Il mondo è terribile, fa schifo, è crudele… La satira ne è uno specchio. E se non ti piace non te la compri”.

 

[**Video_box_2**]Ma tu hai mai ricevuto minacce per una vignetta? “Non ho mai ricevuto minacce, solo stronzate”. Tipo? “Tipo il presidente della Rai che una volta si era riconosciuto in una mia vignetta. Ma lui in quella vignetta non c’era, te lo giuro. Eppure insisteva nel dire di essere lui, e mi querelò”. E vinse? “Sì”. Guareschi, in Italia, finì in prigione, per la satira. “Guareschi finì in prigione per aver disegnato Einaudi che passava in rassegna delle bottiglie di vino, e poi per le lettere di De Gasperi. E sulle lettere di De Gasperi aveva probabilmente ragione Guareschi, come pure sulle bottiglie di vino. Nella satira c’è la verità. E quando la satira, col suo fastidioso paradosso, sfiora la verità, allora sta facendo il suo porco lavoro. In Italia, tra fine Ottocento e inizi Novecento, c’era l’Asino, di Galantara e Podrecca. Era una rivista ferocissima con i preti. Pubblicavano delle vignette con i preti che s’inculavano i bambini. Già allora. E sull’Avanti c’era Scalarini che disegnava l’Italia come una grande prigione. Che c’è più di questo come racconto di verità? Quando io mi trasferii da Palermo a Roma, quarant’anni fa, passavo intere giornate a sfogliare le annate dell’Asino. Ho imparato moltissimo”. E Vincino, su questo tavolaccio di trattoria romana, adesso, mima la lettura dell’Asino, con l’avidità dell’assetato che tuffa le braccia nell’acqua prima di immergervi la testa. E si perde nei ricordi. A Palermo, negli anni Settanta, lavorava all’Ora di Vittorio Nisticò. Figlio del capo dei cantieri navali di Palermo, estrazione dunque borghese, Vincino in quegli anni vestiva l’eskimo in redazione. Divenne famoso in città quando l’indimenticato pretore Vincenzo Salmeri decise che gli hot pants, cioè i pantaloncini che lasciavano ben poco all’immaginazione quanto alle rotondità posteriori delle ragazze, erano contrari al buon costume. Ne fece le spese una signorina danese, tale Lise Wittrock, di 28 anni, che passeggiava in “hot pants” per i budelli della Vucciria. Salmeri la incriminò per oltraggio al pudore, e Vincino cominciò così una spumeggiante e fortunata serie di vignette che l’avrebbe portato presto a Roma, a Lotta Continua, e poi su su, lungo i rami della sua lunga e fortunata carriera. E bisogna proprio immaginarsele allora quelle vignette sugli hot pants, in una città come Palermo, in una terra come la Sicilia, la cui storia più importante, diceva Brancati, non è quella dei costumi, del commercio, degli edifici e delle rivolte, ma la storia degli sguardi tra uomini e donne.

 

“Io di carattere sono buono, ma i giornali mi piace farli con i cattivi”, dice. “Devi immaginarti cos’è la redazione di un giornale di satira come Charlie. E’ un posto incredibile, dove ci si fomenta l’uno con l’altro, dove si sfonda qualsiasi cosa. I satirici si riconoscono tra loro come adepti di un mistero sregolato e un po’ matto, libero ed essenziale”. E insomma come Ippocrate scomunica il medico che mescola all’arte intenzioni profane, così il satirico, dice Vincino, non può essere corrivo, ma libero e pazzotico. Al Male c’era Sergio Saviane, gli dico. Cattivissimo. “Saviane, che mi voleva bene, mi massacrò sull’Indipendente, quando passai al Foglio. Io lo chiamai e gli dissi che lo adoravo. Dopo il Corriere, andai al Foglio perché volevo la libertà più totale. E l’ho avuta. Anche se Giuliano si è incazzato l’altro giorno perché ho pubblicato una vignetta di una tizia messa carponi sotto la scrivania di Renzi”. Era un pompino. “Non si sa cosa faceva sotto quella scrivania”. Siamo sempre lì: i limiti, la volgarità, il rispetto della sensibilità altrui, come per Charlie. “Satira è ricerca dell’eccesso”. E allora bisogna essere temerari e sicuri come delle capre? “Si deve essere liberi ed eccessivi su tutto, anche su Allah. O noi lavoriamo su tutto o non lavoriamo per niente. A volte funziona, a volte no. A volte fa ridere, a volte no. I musulmani sono più sensibili? Non hanno avuto l’illuminismo, mentre la chiesa cattolica ha avuto cinque secoli di umanesimo? Non lo so. Non sono problemi che mi pongo, e che mi devo porre. Il mio problema è disegnare liberamente, andare a sbattere contro i limiti, anche della decenza”. Vincino è un uomo delicato e astratto, però capace di erompere bruscamente in un essere preciso e realistico. “Io oggi sono incazzato, sono incazzato con lo stato francese che non ha difeso quegli inutili, straordinari, sgangherati, coraggiosi e geniali vignettisti di Charlie”, dice con un calore di vita umana e d’affetti che impregna ogni parola. Poi ci salutiamo e lui fugge via, ed è di nuovo leggero, trasognato, confusamente avvolto nel suo cappottone troppo lungo, i capelli sciolti di chi è appena sceso dal letto.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.