“La morte di Theo van Gogh” dell’artista John Keane (2007)

La notte dei taglialingue

Giulio Meotti

Storie di giornalisti e vignettisti scomparsi per non fare la fine di Charlie Hebdo. Le “regole Rushdie” sono oggi in uso nella comunità degli scrittori. Ha vinto la paura

Sono noti come “gli invisibili”. Erano apparsi in una hit list del terrorismo islamico al fianco del direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier. Sono i vignettisti, i giornalisti e gli intellettuali coinvolti nella pubblicazione delle vignette. Oggi gran parte di loro sono diventati dei fantasmi, degli irreperibili, vivono alla macchia, nascosti in qualche casa di campagna, oppure si sono ritirati a vita privata, per depotenziare la fatwa che li ha marchiati a vita, vittime di una comprensibile autocensura. Ieri il direttore dell’Independent, Amol Rajan, ha avuto il coraggio di confessare che ha deciso di non ripubblicare le vignette. “Troppo rischioso”, ha scritto il giornalista che dirige una delle glorie delle chattering classes liberal anglosassoni.

 

Una reazione comune a molti altri giornali inglesi nel giorno in cui l’editore norvegese di Salman Rushdie, William Nygaard, che nel 1989 si beccò tre colpi di arma da fuoco vicino a casa a Oslo quando uscirono “I versetti satanici”, ha definito la strage di mercoledì “l’11 settembre della libertà di parola”. E nonostante l’affetto che oggi stringe Charlie Hebdo, la libertà d’espressione sembra traballare, appare sempre più fragile.

 

Quando tre anni fa Charlie Hebdo era stata colpita dalle molotov, la rivista Causeur scrisse che in Europa tirava una strana aria di “autodafé”. E’ la terribile parola che, nel linguaggio dell’Inquisizione medievale, indicava l’atto d’abiura pronunciato dall’eretico. Uno dei dieci “most wanted” nel mirino del terrore, il direttore del giornale danese Jyllands-Posten, Carsten Juste, ha compiuto l’autodafé: “Esprimiamo le nostre scuse e il nostro dispiacere per ciò che è successo, tutto ciò è lontano dalla nostra linea editoriale. Non avevamo intenzione di offendere o di insultare alcuna religione”. Da allora, Juste si è ritirato dal dibattito sulla libertà di parola.

 

Il timore di rappresaglie si è mangiato il lavoro del caposervizio cultura del Jyllands, Flemming Rose. Nei giorni scorsi in America è uscito il suo saggio “La tirannia del silenzio”. Lo ha pubblicato la minuscola casa editrice di un think tank, il Cato Institute. Perché come ha spiegato Rose al Washington Post, “le altre case editrici hanno esitato per paura”. Oggi alla sede del Jyllands-Posten si entra dopo aver passato una barriera di filo spinato alta due metri e lunga un chilometro. Sembra di accedere a una ambasciata americana in medio oriente. Il quotidiano conservatore danese si trova sulla collina Ravnsbjerg di Viby, nei pressi di Aarhus. C’è anche una porta a doppia chiusura, come nelle banche, mentre i dipendenti possono entrare solo uno alla volta digitando un codice personale (misura che non ha protetto i redattori di Charlie Hebdo, dove una giornalista è stata costretta dai terroristi a farli entrare).

 

Il professore di Filosofia, editorialista del Figaro e redattore della rivista sartriana Temps Modernes, Robert Redeker, minacciato di morte per un articolo polemico sull’islam, dopo otto anni è ancora uccel di bosco e su di lui grava un linciaggio in contumacia. Redeker vive ancora sotto la protezione della polizia. Conferenze e corsi annullati, la casa messa in vendita, il funerale del padre celebrato nell’anonimato e il matrimonio della figlia organizzato dalla polizia. Come ha raccontato Redeker al giornale Dépêche, “quando sono andato a Vienna per una conferenza sull’aereo ero accompagnato dalla polizia francese, che si è poi coordinata con quella austriaca, per garantire la mia protezione in ogni istante”. E anche quando va a Parigi, come ha appena raccontato il suo editore Pierre-Guillaume de Roux a Libération, “dietro Redeker c’era una macchina senza targa che lo seguiva ovunque”. Erano i servizi di sicurezza francesi. In Francia Redeker non è una cause célèbre (c’è stata più mobilitazione per il cantante uxoricida Bertrand Cantat e il terrorista pluriomicida Cesare Battisti). Stessa condizione per il direttore della International Free Press Society di Copenaghen, Lars Hedegaard, rimasto miracolosamente illeso dopo aver subìto due anni fa un agguato da parte di un uomo che lo ha avvicinato vestito da postino e gli ha sparato mirando alla testa, ma mancando il bersaglio. Doveva essere una esecuzione in piena regola di fronte alla casa dell’intellettuale in un quartiere borghese a ovest di Copenaghen. Ieri, dopo la strage al Charlie Hebdo, i servizi di sicurezza svedesi hanno potenziato le misure di protezione per il vignettista Lars Vilks. “Chi avrà il coraggio adesso di pubblicare?”, si chiedeva ieri Vilks sulla stampa svedese. Kamikaze sono stati lanciati a Stoccolma contro il suo nome. Gli hanno incendiato la casa. Lo hanno quasi linciato a una conferenza. In Inghilterra l’artista Grayson Perry è uscito dalla persecuzione smettendo di occuparsi di islam. Ha confessato di essersi autocensurato per paura di fare la fine di Theo van Gogh, il regista olandese assassinato nell’autunno 2004 per aver girato un film-denuncia sulla condizione della donna nell’islam. “La ragione per cui non ho più attaccato l’islamismo nelle mie opere è che nutro una paura reale di finire con la gola tagliata”, ha detto Perry. Così Tim Marlow, direttore della White Cube, una delle più note gallerie d’arte della capitale britannica, ha accolto positivamente l’ammissione di Perry: “E’ qualcosa che pochi altri avrebbero ammesso. Le istituzioni, i musei e le gallerie sono protagoniste della censura”. Sul quotidiano Seattle Weekly quattro anni fa è comparso un articolo che cominciava così: “Come avrete notato questa settimana sul giornale non c’è la vignetta di Molly Norris. Questo perché Molly non c’è più”. E’ il caso della vignettista americana che ha dovuto cambiare nome, città e vivere sotto protezione perché è nel mirino dei qaidisti. E’ scomparso l’avvocato copto americano Morris Sadek, che ha realizzato il film “The innocence of Muslims” al centro dell’attentato di Bengasi al consolato americano, costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens.

 

Numerose istituzioni culturali hanno scelto l’autocensura. Il Metropolitan Museum of Art di New York ha rifiutato, per timore di attentati, di esporre le vignette danesi e le edizioni della Yale University Press hanno pubblicato il libro “The Cartoons That Shook the World”, dedicato alla storia delle caricature, senza riprodurre le vignette. E “The Jewel of Medina”, il romanzo dell’americana Sherry Jones sulla vita della terza moglie di Maometto, è stato censurato e rifiutato dalla casa editrice Random House dopo averlo acquistato e aver già lanciato un’ambiziosa campagna promozionale. La prima è stata la celebre Tate Gallery di Londra, che ha ritirato dalle proprie esposizioni l’opera “God is great” di John Latham. Il critico d’arte Richard Cork accusò l’establishment culturale britannico di aver svenduto la libertà d’espressione: “Quando si inizia a pensare così, il cielo è il solo limite”. E infatti. In Olanda l’opera “Aisha” è stata cancellata perché ritrae una delle mogli di Maometto e a Berlino la Deutsche Oper ha cancellato dalla stagione lirica invernale l’“Idomeneo” di Mozart, perché c’è la testa mozzata di Maometto.

 

Ma era già successo all’epoca del caso Salman Rushdie. La casa editrice francese Christian Bourgois si rifiutò di pubblicare “I versetti satanici” e lo stesso fece l’editore tedesco Kiepenheuer. Minacce arrivarono ai collaboratori della casa editrice. L’allora più grande catena americana di libreria, Waldenbooks, ritirò dal commercio il volume. C’era persino il timore di esporlo in vetrina. E in questo clima il primo paese dell’Europa continentale ad aver messo in vendita Rushdie fu proprio l’Italia, con il volume pubblicato da Mondadori. Ma quattro anni dopo già risuonava l’accusa di Inge Feltrinelli: “Non c’è stato un solo gruppo di intellettuali e artisti che si sia schierato in difesa di Rushdie. E di questo mi vergogno profondamente”. Molti invece furono, come scrisse Alberto Arbasino su Repubblica, “i propagandisti accaniti di regimi che se avessero prevalso avrebbero riempito gulag e lager e tombe come già negli anni Trenta e Quaranta”.

 

[**Video_box_2**]Il vignettista danese Kurt Westergaard, autore della caricatura di Maometto con la bomba nel turbante, effigie bruciata in tutte le piazze del mondo arabo, è andato in pensione e oggi vive in una casa-fortezza, con telecamere di sicurezza e finestre blindate e macchine di guardia all’esterno, protetto nella sua malinconia. Quando venne ucciso Theo van Gogh, Christopher Hitchens ebbe a chiamarla “la Notte dei cristalli della libertà”. “Un piccolo paese democratico con una società aperta, un sistema di pluralismo confessionale e una stampa libera è diventato oggetto di una straordinaria, incredibile campagna organizzata di menzogne, odio e violenza”, scrisse il celebre polemista newyorchese. Una campagna che ha funzionato a dovere. Perché come ha detto alcune settimane fa al New York Times il regista e amico di Van Gogh, Theodor Holman, “la tolleranza si è trasformata in codardia”.

 

Lo scorso novembre il sindaco di Amsterdam, Eberhard van der Laan, ha detto che a dieci anni dall’omicidio “la città è più armoniosa e pacifica”. Nel senso che nessuno osa più parlare di islam come faceva Van Gogh. La collaboratrice del film “Submission”, Ayaan Hirsi Ali, è riparata negli Stati Uniti, dove le viene impedito di tenere conferenze negli atenei più liberal d’America (su tutti, il caso della Brandeis University). E del seguito del film di Van Gogh “Submission” (che dà il titolo anche al romanzo di Michel Houellebecq) non se ne è mai fatto niente. Intanto, all’Aia, si prepara adesso un nuovo processo per “islamofobia” a Geert Wilders, l’altro nome che era inciso sul petto del regista olandese.

 

Le “regole Rushdie” si sono dunque imposte nella comunità degli scrittori e dei giornalisti. Gli irregolari di Charlie Hebdo erano l’unica eccezione rimasta. Il caso, per ora, è chiuso. Ieri gli occhi di Salman Rushdie, sempre sonnacchiosi dietro i pesanti occhiali, non lasciavano intravedere la sua solita furbizia mondana, ma tanta tristezza. Ci si poteva leggere dentro la ritirata dell’occidente. La vittoria dei taglialingue.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.