Una donna mostra un foglio, una candela e una matita, simboli della solidarietà al Charlie Hebdo, durante una manifestazione a Torino

Non siamo soli

Redazione

Sfogli i giornali, nel giorno del cordoglio universale, del #JeSuisCharlie – che si spera, per Charlie Hebdo ma anche e soprattutto per noi, non faccia la fine di altre indignazioni collettive come quella di #BringBackOurGirls – e per una volta ti senti meno solo.

Milano. Sfogli i giornali, nel giorno del cordoglio universale, del #JeSuisCharlie – che si spera, per Charlie Hebdo ma anche e soprattutto per noi, non faccia la fine di altre indignazioni collettive come quella di #BringBackOurGirls – e per una volta ti senti meno solo. Guardi la prima pagina dell’Independent britannico, un dito medio che si alza da una copertina del Charlie Hebdo, con il pennino intinto di sangue, irriverente, come amava essere il direttore Charb, e ti senti meno solo. Ma soprattutto leggi George Packer sul New Yorker, giornalista-saggista liberal pluripremiato in forze dal 2003 nel tempio liberal patinato da miliardi di parole ad articolo, e ti senti meno solo. L’esecuzione a Parigi dei giornalisti del Charlie Hebdo e dei poliziotti in servizio per proteggerli, scrive Packer, “non è il risultato del fallimento della Francia nell’assimilare due generazioni di musulmani immigrati dalle ex colonie; non ha nulla a che vedere con il ruolo militare della Francia contro lo Stato islamico in medio oriente, né con l’invasione dell’Iraq da parte dell’America. L’attentato non fa parte dell’ondata di violenza nichilista che attraversa l’occidente economicamente depresso, socialmente atomizzato, moralmente vuoto – la versione parigina di Newtown o Oslo. E ancor meno l’attentato deve essere ‘capito’ come la reazione alla mancanza di rispetto per la religione da parte di vignettisti irresponsabili”.

 

Non ce la siamo cercata, la colpa non è nostra, si tratta “soltanto dell’ultimo colpo sferrato da un’ideologia che ha cercato di ottenere il potere attraverso il terrore per decenni”. E’ l’ideologia dell’islamismo – continua Packer – “la politica come religione e la religione come politica”, e hai voglia a “tiptoe”, a girare attorno, alla “Islamic connection”, dicendo che la strage non ha nulla a che fare con la fede, che la violenza è solo una distorsione di una religione pacifica: “Charlie Hebdo è stato aconfessionale nella sua satira, ha infilato il dito anche nella sensibilità di ebrei e cristiani, ma soltanto gli islamici hanno risposto con minacce e atti di terrore”. Con la condanna e la rabbia non si va molto lontano, certo, ma “i disegnatori sono morti per un’idea, gli assassini sono soldati di una guerra contro la libertà di pensiero, di parola, contro la tolleranza, il pluralismo e il diritto di offendere – contro tutto ciò che c’è di dignitoso in una società democratica. Ecco perché dobbiamo tutti cercare di essere Charlie non solo oggi, ma tutti i giorni”. Dopo l’orrore e il cordoglio c’è da combattere una guerra che ha i contorni chiari, totalitarismo fanatico contro democrazia – le sfumature le cogliamo sempre e soltanto noi, noi europei soprattutto, che viviamo i nostri valori come un fardello, non come la nostra forza. E poiché è una guerra, va combattuta con chi ha il coraggio di condannare l’islamismo, con i moderati che hanno parlato e parleranno – fatelo chiaro, fatelo forte – contro la perversione di questi terroristi.

 

[**Video_box_2**]E anche con un generale come Abdel Fattah al Sisi, il presidente dell’Egitto, che in quanto a democrazia sa poco o nulla, ma che soltanto qualche giorno fa, all’Università al Azhar del Cairo (la stessa in cui parlò Obama nel 2009), ha fatto un appello per una “rivoluzione religiosa”, definendo “inconcepibile” il fatto che l’islam sia diventato “fonte di ansia, di pericolo, di morte e distruzione per il resto del mondo”. “Voi imam”, ha detto Sisi, “siete responsabili di fronte ad Allah” per questa rivoluzione, “il mondo intero sta aspettando il vostro prossimo passo”. Lo aspettiamo anche dai leader dell’occidente, senza ammiccamenti – strani alleati, ma siamo meno soli.