Coinvolte dai mutamenti del quotidiano, le lettere hanno perso gran parte della loro funzione. E non siamo più in grado di scriverne

Lettera morta

Giuseppe Marcenaro

Ennesima riorganizzazione delle Poste: con carta e penna non scrive più nessuno. Divoriamo in compenso splendide corrispondenze altrui.

Ho passato la notte del 3 gennaio 1992 nella lettura delle lettere che le aveva inviato da São Paulo. Mia madre era morta da poche ore. Mai avrei osato, fin allora, mettere le mani in quella cassettina di balsa color ambra con una etichetta abrasa, memoria di biscotti dimenticati. In ordine, da quella più antica all’ultima, sovrapposte, stavano le lettere che mio padre le aveva scritto in trent’anni. L’annullo sgarbato sul francobollo dell’ultima indicava l’anno: 1986… Loro due non si erano più visti. Si erano scritti. O almeno, mio padre aveva scritto. Ignoro, semmai esistano, dove possano essere finite le lettere che mia madre doveva forse avergli inviato. Al di là dall’oceano. Piene di recrimini. Sei lettere di mio padre, la busta sottilissima della posta aerea profilata da uno squillante giallo-verde carioca, le rinvenni ancora sigillate… Tra loro era sprofondata una voragine. Per una misteriosa e imperscrutabile pulsione, e di cui mi è impossibile comprendere la natura, qualcosa doveva ancora “legarli”. Le lettere probabilmente l’unica “forma” per informarsi della reciproca esistenza. Dopo una separazione che entrambi, da subito, dovevano aver inteso essere per sempre. Le lettere di mio padre, lette una di seguito all’altra, raccontavano dei suoi successi professionali. Le piogge tropicali… Gite a Bahia… “Ti dovresti ricordare il film ‘Saludos amigos’”… Sembrava dar conto di un mondo rutilante e multicolore che arrivava afono, attraverso il deludente e impersonale blu dell’inchiostro di scrittura. Del proprio sé non scriveva. Leggendo quelle lettere su fogli evanescenti di carta azzurrina che lasciavano filtrare avanti-dietro le impuntature della penna stilografica, si intuiva che all’interno delle frasi, nel cavo di certe parole, forse soltanto pensate o sfuggite come una avventizia e non voluta rivelazione – la reticenza d’aprire accidentalmente il proprio animo – si celava un altro universo, diverso. Impenetrabilmente alluso. Volutamente inconfessabile. Che soltanto le plumbee perfidie di mia madre dovevano esser state in grado di decrittare.

 

Questo privato carteggio non aggiunge nulla alla storia del mondo. E’ soltanto un disperso pulviscolo. Non è letteratura. E drammaticamente neppure comunicazione. Lettere che sembrerebbero contraddire la loro stessa natura. Una lettera se non comunica, anche in negativo, non serve a nulla. Eppure, in un momento di abbandono, per la forza delle cose, un certo numero di quelle lettere ha consentito a un figlio di percepire, nell’ordito sfuocato della scrittura, la per lui ermetica intesa tra i propri genitori. La medesima e arcana ragione per cui quel figlio esiste. Il quale potrebbe essere indotto al rimpianto, mettendo sotto accusa, per tutte le angosce d’una vita, la costellazione di attimi frammentati di cui siamo fatti. E per quanto possa sembrare assurdo, riconoscere d’aver avuto la “prova” della propria esistenza, da alcune lettere rinvenute in una cassettina d’antan, di balsa, color ambra.

 

Ed è proprio a quelle par avion dal Brasile, che ancora conservo come documento della strenua volontà dell’uomo di sopravvivere a se stesso, nonostante tutto, che ho ripensato quando, qualche giorno fa, i giornali hanno commentato l’ennesima riorganizzazione delle Poste italiane. Ritornerebbe la posta ordinaria. Era stata cancellata per privilegiare le soi-disant prioritarie che prevedevano il recapito in giornata. Il postino però suonerà sempre meno. La corrispondenza arriverà in maniera flessibile, a giorni alterni. Fors’ancora più raramente. D’altra parte quasi più nessuno manda lettere. Sopravvivono alcuni ostinati. Un amabile signore genovese, Giovanni Battista Ansaldo, invia ancora lettere agli amici. Scritte rigorosamente a mano. E’ l’ultimo dei Moicani. La sua fedeltà suscita divertita sorpresa e ammirazione. Ogni giorno, il rito: esce di casa per impostare. Crede ancora alla corrispondenza come traccia di esistenza. Mantiene viva la tradizione del padre, il giornalista Giovanni Ansaldo, grande scrittore di lettere, il cui carteggio con gli uomini del suo tempo è la radiografia della storia del Novecento. Carteggiava con Salvemini e Gobetti, Croce e don Giustino, Amendola, Longanesi, Malaparte, Missiroli… E riceveva posta da lettori avventizi o fedeli dei suoi articoli. Conservò tutte le lettere ricevute in perfetto ordine. Suddivise per mittente.

 

Ogni lettera che viaggia da uno stato d’animo all’altro, è l’incontro tra due presenti lontani che affondano nelle rispettive assenze. Il voyeuristico lettore che si intrichi di corrispondenze altrui, rese pubbliche da uno scoop, dai giornali o dall’editoria, con intenti letterari o storici, leggendo quelle missive resuscita il loro autore. Ed è indotto a giudicarlo. Si vuole sempre conoscere lo stato dell’anima della persona di cui si leggono le lettere.

 

La lettera, più d’ogni opera di scrittura, sia di mano sconosciuta o di verticistico autore letterario, impone un canone formale. La scrittura a mano e di getto fa affiorare il carattere dell’autore. Scrivere lettere è anche pericoloso. Mette a nudo. E’ anche un “gioco” del doppio. Una lettera dichiara il profilo biografico e caratteriale non soltanto di chi l’ha vergata, ma anche della persona cui è diretta. L’esplorazione di un carteggio fornisce dati inimmaginabili: i riflessi metaforici sono infiniti. La carta su cui la lettera è vergata non è un opaco “oggetto di supporto”. Emulsiona intrinsecità medianiche, trasmuta in specchio della memoria.

 

Se qualcuno desiderasse capire cosa significhi veramente la comunicazione affidata alla corrispondenza scritta, nell’epoca in cui l’irruenza elettronica ha progressivamente demotivato i rapporti umani, non soltanto a mezzo lettera, e l’attenzione alle cose del mondo è disabusata, potrebbe, cambiando secolo, prendersi una vacanza e far visita a una delle più celebrate scrittrici di lettere di tutti i tempi, Marie de Rabutin-Chantal, marchesa di Sévigné. Scrivere lettere era il suo “solo modo di esistere”. Alcuni eletti del tempo si passavano in copia le sue splendide corrispondenze. Madame di Sévigné era una donna dalla solare ironia. L’allegria dominava la sua personalità. Il piacere della lettura le faceva apprezzare Rabelais e Montaigne, coniugati al licenzioso brio delle “Chansons” del barone di Blot. Venerava La Fontaine. E conversava scrivendo. La qualità delle sue lettere è il tono confidenziale, la deliziosa spontaneità, il piacere di raccontare: “Scrivo finché la penna lo richiede, così le mie lettere sono molto trascurate, ma questo è il mio stile”. Conosce troppo bene Montaigne per ingannarsi. Come l’autore degli “Essais” sa che “la naturalezza fa lo stile perfetto”. I discorsi spontanei sono ancora il mezzo più sicuro per chi voglia esprimere le cose nel loro movimento e sorprendere l’attimo della vita. “Scrivo così in fretta che non me ne accorgo”. La fluviale corrispondenza, il sublime diluvio di parole, la celestiale grafomania diventano il dono che madame offre ai suoi contemporanei. E a noi posteri, ormai indegni di tanta dedizione all’esistente.

 

Madame di Sévigné si sottomette ai voleri della sorte quando muoiono due suoi grandi amici: La Rochefoucauld e Fouquet. Racconta venti volte, in venti modi differenti, in venti lettere diverse, la morte di Turenne. Nostra signora delle lettere esorcizza il dolore con la corrispondenza: gli occhi, il cuore e la mano di madame “trascrivono” la vita parigina e provinciale, Vichy, le terre di Bretagna, i giorni della corte e della città… Ma non è mai cronaca pettegola. Tutte verità viste: la società del XVII secolo, i fasti e le miserie, le glorie militari e i lutti, nobili simpatici e ridicoli, contadini ribelli, impiccati, giochi e feste a Versailles, pranzi allietati da musica nella casa di Gourville, le malattie della La Vallière, celebre favorita di Luigi XIV fattasi carmelitana con una conversione che fu la più sensazionale del secolo, le rivalità tra madame de Montespan e madame de Maintenon, con il pelo dritto come i gatti all’ombra del trono. Tutta una parte del XVII secolo si trova così evocata in un costante gioco di rimandi. E’ facilmente intuibile perché Proust ne rimanesse affascinato. Madame de Sévigné ama dunque la vita e ha una naturale simpatia per le persone. La morte del suo giardiniere è “descritta” con un cenno semplice e delicato: “Mastro Paolo morì otto giorni fa, il nostro giardino ne è tutto triste”. Detesta la crudeltà e ha un autentico trasporto per la natura commovendosi e deprecando per la distruzione degli alberi di Buron: “I più vecchi boschi del mondo”. A Issy ascolta il canto dell’usignolo e si estasia alla vista del pruno in fiore, dei lillà, delle fontane. E fa “vedere” gli alberi sotto il gelo, “ornati di perle e di cristalli”. Le immagini scorrono affascinanti come le sorprendenti evocazioni nelle vues d’optique, “risvegliate” al tenue lume di una candela. Il teatro del mondo nelle lettere, trasfigurato nella metafisica del quotidiano, con naturale ovvietà.

 

Nei tempi nostri in cui, per cause estrinseche e intrinseche, la corrispondenza via lettera, ormai moribonda, è avviata all’infungibilità, destinata a perdere il proprio senso, mutando in una eccentrica archeologia nell’immaginario di chi ancora percepisca il battito del mondo, l’editoria, curiosamente, si dedica a pubblicare nuvole di epistolari: corrispondenze di verticismo letterario, dell’arte, della scienza… Lettere inviate da Thomas Mann a Lavinia Mazzucchetti, sua traduttrice italiana, che effondono il senso quotidiano della tragedia tedesca ed europea da cui Mann viene risucchiato a poco a poco senza capire cosa si debba fare per porre un argine all’incombente pericolo… Lettere scritte di getto, telegrafiche o infinite, una ininterrotta conversazione, tra due persone sofferte, Elizabeth Bishop e Robert Lowell, che si macerano in un monumentale epistolario… Lettere la cui scrittura è intinta non nell’inchiostro ma in umori sessuali come quelle di Federico De Roberto, slavinate sul corpo dell’amante Ernesta Valle… Lettere di vagolabili e improvvisati inviate a presidenti degli Stati Uniti… Lettere di celebrati, amorose ed erotiche, zeppe di recrimini burleschi, di seriosità e disperazioni… Lettere di oscuri fanti di tutte le guerre che inviavano a casa sgrammaticati rimpianti dalle trincee, marinai sperduti negli oceani che affidavano all’imponderabile missive arrivate a destino dopo anni. Lettere che “raccontano” sussulti e stati d’animo. Curiose bizzarrie.

 

Il 25 marzo 1916 fu recapitata a Giuseppe Pontremoli, allora direttore del Secolo di Milano una lettera: “Siamo ladri creati dall’autorità di Milano… Ex onesti impiegati ed ex onesti operai che ebbero la disgrazia di venire a conoscenza dei giuochi pubblici, giuochi più azzardosi delle famose Roulet [sic]…”. Firmata Otto ladri milanesi, prosegue: “Abbiamo cominciato a far sparire le borsette alle signore, scassinare tiretti, rompere cassette di chiese, asportare merce e continueremo finché la faremo franca, poiché fin’ora non ci hanno acciuffati. Una sola cosa chiediamo: che cessino i giuochi d’azzardo pubblici, altrimenti noi non cesseremo di rubare”.

 

[**Video_box_2**]La lettera è un simulacro vivo e inestinguibile. Non fosse firmata – le celebrate anonime – l’autore della lettera sarebbe comunque presente quando il destinatario la leggesse. Il congegno interno della missiva è rituale: la carta, la grafia con cui è scritta. Ed è la “figura” di una voce che parla. Ai posteri il compito di spiegare le pieghe più segrete di quei messaggi senza dei quali le discendenze non sarebbero in grado di riconoscersi. Messaggio da un grande scrittore di lettere: Walter Benjamin… “I carteggi appartengono alla sfera della testimonianza. Le testimonianze appartengono alla storia della sopravvivenza, e il carteggio permette di sentire come la sopravvivenza entri nella vita, con la propria storia”.

 

Esplorare lettere è vivere sull’onda dei giorni e delle emozioni. Gli epistolari hanno un potere evocativo estremo. Fondano il loro fascino sull’intimità: con l’autore delle lettere, nel suo rapporto con il destinatario. Si scoprono punti di vista assolutamente soggettivi. Affiorano spontaneità, l’individuale esperienza, le solitudini e le aspirazioni più nascoste. Dissimulazioni. Tracce visibili e sensibili. Rilke: “Una lettera non è scrittura, è il respiro della penna”.

 

Tutte le lettere sparse per il mondo, nascoste, custodite negli archivi, nelle collezioni private o passabilmente rinvenute sui banchi dei rottamat, per esistere hanno bisogno di una mano capace di riesumarle, resuscitandole. Dopo che qualcuno le abbia scritte, inviate, ricevute, lette, rilette, guardate… Esaltante l’universo delle lettere arrivate fino a noi, con la loro intima materialità, senza che ne fossimo i destinatari. La sublime traccia della vita degli altri reclama attenzione. La “piccola emozione” che prova Jules Renard scoprendo e leggendo una lettera destinata a qualcun altro, riaffiora sempre quando l’interesse cade su una scrittura ignota, su indirizzi e firme sconosciute, su buste improbabili, una piega sgarbata della carta, una frase interrotta, il frammento di un pensiero non espresso… Per mettere insieme “un epistolario” non è necessario essere homme ou femme de lettres, chiamarsi Voltaire, Madame du Deffand, George Sand, Flaubert, Leopardi, Foscolo, Mazzini, Manzoni, Proust, Céline…

 

La polifonia degli epistolari. Le documentazioni dei fremiti, delle ansie e degli entusiasmi di un mondo. “Non vi è nulla di più coinvolgente – scriveva Chateaubriand a madame Récamier – delle lunghe corrispondenze di Voltaire che attraversano un secolo quasi per intero…”. Può accadere che un carteggio tra due persone che si sono amate faccia affiorare una visione lancinante: i “mittenti” non sono più l’uomo e la donna che si sono scritti, ma l’ombra dei loro pensieri e delle loro furie. Chi ha la forza di sottrarsi dallo spiare la tristezza e le esaltazioni d’altri? Scoprire il seguito di una storia. Come la storia sia iniziata. Percepire i singulti, gli orgasmi, i silenzi annidati tra riga e riga.

 

In un immaginario inventario “cataloghiamo” le lettere per specie: d’amore, d’amicizia, di rimpianto, di lutto, di viaggio, familiari, al Principe, al maestro di vita… Frenesie e confidenze di inventori, artisti, sapienti, scrittori, presi dal vortice delle loro ricerche e della creazione. Voci che producono echi. Lontani, di là dai mari. Dalla camera accanto, quando la lettera è nelle mani del destinatario. L’aria di un altrove recata dalla lettera che ne fa gustare l’ineffabile sapore.

 

Coinvolte dai mutamenti del quotidiano, strapazzate dall’ebollizione della storia, le lettere, nonostante la loro incredibile costanza e nella loro ineffabile inviolabilità – una lettera reca comunque il segreto di un’intesa tra due persone – hanno perso gran parte della loro funzione. Fenomeno del nostro tempo: al successo accordato alle edizioni degli epistolari corrisponde una decadenza nell’uso e nella vocazione alla scrittura delle lettere. Contraddizione che fa ambire e coinvolge nella meraviglia di lettere d’altri. Noi, oggi, incapaci e non più in grado di scriverne: il tragico smarrimento dello stile e del linguaggio. La drammatica perdita dell’attenzione e della conversazione in un tempo di debordante sbardellata comunicazione.

 

I “rapporti” elettronici hanno sbaragliato l’arte della scrittura. Non ho voglia di recriminare sulle nefandezze linguistiche e sul neogeroglifico da sms, mail, WhatsApp, viber, telegram, Facebook, Twitter: onanismi senza orgasmo che hanno sbalestrato i rapporti “epistolari” mutandoli in voliere di logomachie insensate. Tenetevi pure i 140 caratteri cui siete costretti per “connettervi” in scempiaggini e nefandezze. Vagolando per l’etere con l’illusione di infondervi con tutti. E con nessuno. Nel fragoroso silenzio della perdita del senso.

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