L'obiettivo economico per il 2015, ripartire

Enrico Cisnetto

L’Italia non è come la Grecia. Eppure c’è da stare attenti con i populisti antieuro. Tre motivi per stare attenti a quello che succede da noi, con un occhio al di là dell'Adriatico.

In queste ore a cavallo tra 2014 e 2015 ci si affanna a sottolineare che Grecia e Italia non si assomigliano, e che l’ennesima crisi ellenica non ci tocca. Il riferimento che si fa è al debito pubblico, e indicarne la differenza è corretto. Il loro debito, pur avendo subito nel 2012 un haircut (voluto da Merkel e Sarkozy) del 70 per cento per la parte relativa ai privati, è insostenibile, e resterebbe tale anche proseguendo con le politiche di austerità imposte dalla Troika, salvo un ulteriore e forte ammorbidimento delle condizioni di tassi e tempi dei crediti europei (ormai la quasi totalità dei titoli del Tesoro greco sono in mani estere). Il nostro, invece, è abnorme ma sostenibile, oltre che in mani italiane per il 65 per cento del totale. Inoltre, è fondata la tesi di chi sostiene che l’Italia non corre soverchi pericoli di dover aprire (ancora una volta) il portafoglio in caso di default greco. A fronte di un debito di 330 miliardi complessivi, solo 13,2 miliardi sono passività a breve (meno di 18 mesi) con termini di pagamento stringenti. E la salute dell’economia, pur rimanendo seria, è certamente meno grave di quanto non fosse nel 2012, con i conti pubblici che sono tornati a registrare un avanzo primario e le banche che hanno già superato una dura ristrutturazione.

 

Tutto bene, dunque? Possiamo affrontare sereni il nuovo anno? Manco per niente. Per tre motivi. Il primo riguarda una cosa che accomuna Roma e Atene: sistemi politici ancora in fase di transizione (a esser buoni) che ora sono costretti ad affrontare un medesimo passaggio difficile (la nomina di un nuovo presidente della Repubblica). Il secondo motivo di preoccupazione riguarda la nostra economia, il terzo l’Europa. Partiamo dal primo. In Grecia l’elezione del capo dello stato ha abortito, per cui il Parlamento si è sciolto, secondo quanto previsto dalla Costituzione, e sono state convocate elezioni politiche anticipate (probabilmente per il 25 gennaio), che si preannunciano un’occasione favorevole per il populismo anti-europeista della sinistra radicale di Syriza. Anche da noi la successione di Napolitano – che chiude i quasi nove anni di presidenza con un risultato pesante (sette anni di recessione, nessuna riforma istituzionale, morte per agonia della Seconda Repubblica senza che sia nata la Terza) suo malgrado – potrebbe rivelarsi così complicata (si veda il pronostico di Macaluso) da sancire la definitiva débâcle di questo Parlamento e aprire la strada a elezioni (senza un nuovo sistema elettorale) che rischiano di rendere ingovernabile il paese. D’altra parte, c’è questa valutazione alla base sia del recente downgrading di S&P sia dei calcoli che i mercati stanno facendo circa un nuovo attacco speculativo ai nostri titoli e all’euro (lo spread con la Germania si mantiene intorno ai 140 punti ma è crescente il peggioramento di quello che ci separa, in peggio, da Spagna, Irlanda e Portogallo, gli ex paesi in difficoltà). E questo anche perché – e qui siamo alla ragione tutta nazionale della mia preoccupazione – le previsioni per il 2015 relative alla nostra economia non sono affatto tranquillizzanti. Sono tutte col segno più, è vero, ma erano così anche l’anno scorso di questi tempi (anzi, erano più ottimistiche) e comunque nel migliore dei casi ci accreditano di una crescita di otto decimi di punto. Troppo poco, dopo aver perso dal 2008 a oggi oltre 10 punti di pil e un quarto della capacità produttiva manifatturiera. E il combinato disposto di una crisi politica con il perdurare della stagnazione (per non dire recessione) economica potrebbe rivelarsi drammatico. Speriamo di no, ovviamente, ma è giusto che ci sia consapevolezza dei rischi che corriamo, a fronte della solita gratuita retorica del “qui va tutto bene, e se qualcosa non funziona è colpa degli altri” sparsa a piene mani.

 

[**Video_box_2**]La colpa è sempre della Merkel?

 

Già, gli altri. Le parole d’ordine anti euro dei populismi di destra e di sinistra, in Europa come in Italia, rischiano di alimentare la cultura della deresponsabilizzazione, già fin troppo diffusa. Ma se passa l’idea che “siamo nella m…” per colpa della Merkel e che tornando alla lira potremo allegramente tornare a svalutare per recuperare competitività e a indebitarci come i giapponesi, avremo risolto i nostri problemi, allora sì che saranno guai seri. E siccome vedo che anche i più avveduti (per esempio, chi sta al governo) – anziché spingere la proposta di cedere collettivamente sovranità in cambio della federalizzazione dei debiti pubblici di tutti, che è l’unica soluzione possibile per risolvere l’incompiuta equazione europea – hanno invece la tentazione di lisciare il pelo per il verso di questo facile modo di procurarsi consenso, temo il peggio. Tuttavia, buon 2015. Ci basterebbe che si rivelasse meno peggio del pessimo 2014.

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