Mario Draghi (foto Ap)

Distanza atlantica

Boom americano e caos greco dicono che all'euro non basta più Draghi

Marco Valerio Lo Prete

Terzo trimestre record negli Stati Uniti, ultima chance di Atene per eleggere un presidente, Bce sempre tempestosa. Sapir: unione fiscale ineludibile, “Draghi ha placato la sfiducia nell’euro. Ora è l’economia reale a essere sfiduciata”. Parla Sapir

Roma. Tre mesi di crescita così robusta, come quella registrata fra luglio e settembre di quest’anno, negli Stati Uniti non si vedevano dal 2003. Nel terzo trimestre 2014, il pil della prima economia del pianeta è aumentato del 5 per cento, dopo il più 4,6 per cento fatto segnare nel secondo trimestre. Si tratta di un dato “annualizzato”, per intenderci non direttamente comparabile con il calo dello 0,1 per cento del terzo trimestre italiano: vuol dire che se per ipotesi la crescita avesse mantenuto questi ritmi per tutto l’anno, il pil americano nel 2014 sarebbe aumentato proprio del 5 per cento. Considerati però i dati negativi del primo trimestre e quelli meno roboanti del quarto, il pil americano dovrebbe crescere di 2,5-3 punti percentuali rispetto al 2013. Comunque un dato di tutto rispetto fra i paesi sviluppati, secondo soltanto a quello del Regno Unito nelle stime del Fondo monetario internazionale. Non solo: la revisione statistica del pil del terzo trimestre va di pari passo con “la crescita di posti di lavoro più forte dal 1999”, scriveva ieri l’agenzia Bloomberg. L’economia americana fino a novembre ha creato in media 240 mila nuovi posti di lavoro ogni mese, a fronte dei 194 mila al mese del 2013, abbassando il tasso di disoccupazione fino al 5,8 per cento. Certo, il tasso di partecipazione alla forza lavoro è ancora basso per gli standard americani, e picchi di crescita del 5 per cento sono stati molto più frequenti tra 1980 e 2000 di quanto non lo siano stati negli ultimi 15 anni, ma il dato di ieri consente di festeggiare, non solo al presidente Barack Obama.

 

L’indice Dow Jones di Wall Street per la prima volta ha raggiunto i 18 mila punti, trascinandosi dietro tutte le Borse europee. L’unico listino a chiudere in calo è stato, non a caso, quello di Atene, per una volta ben poco contagioso. La lezione del giorno, volendo semplificare oltremodo, è la seguente: l’economia americana oggi può permettersi la convivenza di un’Amministrazione democratica (in uscita) con un Congresso dominato dai Repubblicani; ad Atene, invece, perfino il ritardo nell’elezione di una carica simbolica, come quella del presidente della Repubblica, rischia di far ripiombare il paese nella crisi. Ovviamente è anche il contesto che conta, e quello europeo non è proprio dei più rosei.

 

Ieri ad Atene la seconda votazione parlamentare per eleggere il presidente della Repubblica è andata a vuoto; il quorum di 200 voti (su 300) non è stato raggiunto; adesso le urne si riapriranno per l’ultima volta il 29 dicembre, con un quorum ridotto a 180, dopodiché, in caso di mancata scelta, si andrà a elezioni politiche anticipate. Nei report delle banche e dei fondi d’investimento è ormai tutto un affollarsi di sondaggi: gli elettori greci per il momento sembrano infatti preferire Syriza, partito di estrema sinistra che si dice pronto a denunciare gli accordi con la Troika (Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) e a riprendere una politica di robusta espansione fiscale. Che questa possa essere la ricetta per rinvigorire in maniera strutturale la crescita greca è lungi dall’essere dimostrato; che possa danneggiare i creditori superstiti di Atene è praticamente certo. Così si spiega la diffusa attenzione della stampa internazionale per il processo elettorale in corso. L’attuale governo di grande coalizione, guidato dai conservatori di Antonis Samaras, è sostenuto da 155 parlamentari; per il candidato proposto da Samaras, l’ex commissario Ue Stavros Dimas, al primo turno hanno votato in 160, ieri poi in 168 grazie al sostegno di partiti minori e indipendenti; è possibile che entro lunedì prossimo non si troveranno altri 12 “volenterosi”, nonostante Samaras abbia già fatto alcune concessioni (elezioni anticipate nella seconda metà del 2015 una volta terminata la revisione degli accordi con la Troika) e ne possa fare di nuove (magari proponendo un nuovo candidato). Per il momento sono soprattutto la Borsa e i titoli di stato greci a essere tornati sull’ottovolante. Nel resto dell’Eurozona, invece, si fa sentire ancora l’effetto-tranquillante dei nuovi impegni della Banca centrale europea (Bce), incluso l’avvicinarsi del Quantitative easing (o allentamento quantitativo). Secondo il Wall Street Journal, però, anche se il presidente della Bce Mario Draghi ha avuto ragione dell’opposizione della Bundesbank all’acquisto di bond sovrani, i tedeschi potranno ancora dettare condizioni restrittive che influenzeranno la riuscita del programma.

 

Per André Sapir, Senior fellow del think tank brussellese Bruegel e già consigliere economico di Romano Prodi quando era presidente della Commissione Ue, il riacutizzarsi dell’instabilità greca dimostra ancora una volta i limiti dell’assetto fiscale e istituzionale europeo: “Il tema del raggiungimento di un’unione fiscale, con una condivisione di rischi tra paesi membri, rimane ineludibile – dice Sapir al Foglio – Riemerge ogni volta che si torna a dubitare della sostenibilità di un debito sovrano europeo. Inoltre uno stabilizzatore automatico comune a livello europeo, come un sussidio di disoccupazione unico, consentirebbe di ammortizzare in parte gli choc, senza costringere i singoli paesi in difficoltà a politiche pro cicliche”. Conclude Sapir: “Nel 2012, il ‘whatever it takes’ di Draghi e l’Unione bancaria placarono la sfiducia dei mercati finanziari rispetto all’euro. Oggi però è l’economia reale a soffrire di mancanza di fiducia, come dimostra la carenza cronica d’investimenti”. Così le Borse si aggrappano pure a un trimestre di bonanza dall’altra parte dell’Atlantico.

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