Il ministro del Petrolio saudita Ali al Naimi (foto AP)

Riad e Washington rivali

L'Arabia Saudita sta facendo un test mondiale con il prezzo del greggio

Daniele Raineri

Il regno arabo ha deciso di vedere fino a che punto i produttori americani riusciranno a tenere testa al ribasso.

La Russia con il rublo in caduta libera, l’Iran e il Venezuela sono convinti che il prezzo del petrolio sceso così in basso faccia parte di un piano dell’Arabia Saudita e dell’alleato occidentale – l’America – per indebolire i nemici geopolitici. La versione semplificata è: Mosca si oppone all’occidente su fronti diversi, come la Siria e l’Ucraina, ecco che i sauditi e gli americani hanno trovato il modo di rivalersi tenendo al minimo il prezzo del greggio (l’indice Brent è attorno ai 60 dollari, quest’estate era stabile sopra ai 100) e così danneggiare gli incassi dei paesi che fanno conto soprattutto su quella risorsa (come appunto Russia, Iran e Venezuela). Un articolo informato del Wall Street Journal di ieri spiega invece che la questione potrebbe essere non l’alleanza tra sauditi e americani, ma la loro rivalità.

 

Due reporter, Jay Solomon a Washington e Summer Said a Dubai, hanno ascoltato fonti diverse che spiegano che l’Arabia Saudita vede come una minaccia le compagnie americane che estraggono il greggio in aree come il Texas e il North Dakota da giacimenti un tempo non sfruttabili. Quelle imprese attingono al cosiddetto shale oil, prigioniero di strati di roccia, che ora è estraibile a patto che il prezzo superi una certa soglia e renda l’intera operazione conveniente.

 

All’inizio di ottobre il rappresentante saudita all’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), Nasser al Dossary, ha rivelato che il suo governo avrebbe lasciato il prezzo scendere e non sarebbe intervenuto com’era solito fare, cioè tagliando la produzione e lasciando che la legge della domanda e dell’offerta lo riportasse in alto. Nei mesi seguenti, è stata la nuova politica saudita: non importa più se il prezzo al barile scende e quindi si incassa di meno, l’importante è non cedere quote di mercato ai rivali. Scrive il Wall Street Journal: “I sauditi si sono convinti di non poter più controllare i prezzi da soli in mezzo a quest’inondazione di petrolio… se Riad tagliasse la produzione, altri arriverebbero e ruberebbero le sue quote di mercato”.
Questo timore diventò reale nei due giorni che hanno preceduto il meeting dell’Opec del 27 novembre a Vienna, quando il ministro del Petrolio saudita Ali al Naimi non riuscì a trovare un accordo per un taglio coordinato.

 

Senza una politica comune per tenere il prezzo del greggio a un livello alto, l’altra opzione rimasta ai sauditi – dicono fonti che c’erano – è condurre un gigantesco test: lasciarlo cadere verso il basso e vedere fino a che livello i produttori americani resistono e continuano a estrarre.

 

[**Video_box_2**]L’Arabia Saudita può sopravvivere a due anni di prezzi bassi, grazie anche a una riserva di valuta estera che vale circa 750 miliardi di dollari. Eppure, dicono alcuni manager del settore, Riad e il suo ministro stanno sottovalutando come la nuova tecnologia e l’espansione dello shale oil alterino il mercato dell’energia. Molte compagnie americane possono restare in pareggio o incassare utili anche con il greggio sotto quota quaranta dollari al barile (chissà a Mosca che cosa pensano di quest’affermazione).

 

Insomma, il test è una scommessa anche per i sauditi, e c’è nervosismo. A ottobre il principe Al Walid bin Talal, nipote di re Abdullah, ha scritto una lettera aperta al ministro del Petrolio, Al Naimi, per avvertirlo che non si può minimizzare il crollo del prezzo: “E’ una catastrofe che non può non essere menzionata”. Anche il vice del ministro, il principe Abdulaziz bin Salman (pure lui nipote del re), ha confidato ai colleghi che il budget del regno non può sopportare prezzi bassi a lungo – dicono fonti non specificate al Wall Street Journal.

 

La competizione tra Arabia Saudita e un’America sempre più autosufficiente dal punto di vista delle risorse energetiche fa parte di una vicenda ancora più ampia: l’alleanza tra i due paesi si avvia al crepuscolo, più o meno lento, e i punti d’interesse comune diminuiscono. In questi anni il regno s’è già sentito tradito da Washington nel 2011 sulla questione Egitto – l’Amministrazione Obama tolse il suo appoggio al rais Mubarak nell’ora cruciale della rivoluzione di piazza Tahrir – e una seconda volta sulla questione Siria – quando la Casa Bianca cambiò idea all’ultimo momento e non bombardò l’esercito del presidente Bashar el Assad nel settembre 2013.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)