La condizionale

Guido Vitiello

In questi tempi civili e illuminati non sbattiamo più il mostro in prima pagina; piuttosto, sbatteremmo il presunto mostro in prima pagina, secondo le ipotesi degli inquirenti. E’ l’epoca del garantismo grammaticale, delle formule di attenuazione, delle perifrasi cerimoniose, delle frasi dubitative.

In questi tempi civili e illuminati non sbattiamo più il mostro in prima pagina; piuttosto, sbatteremmo il presunto mostro in prima pagina, secondo le ipotesi degli inquirenti. E’ l’epoca del garantismo grammaticale, delle formule di attenuazione, delle perifrasi cerimoniose, delle frasi dubitative, degli eufemismi e delle litoti cortesi. Al cuore di questo galateo giornalistico dove la presunzione d’innocenza è ridotta a bienséance, a buona maniera da osservare, sta un tipo di condizionale che i linguisti, con un bel nome che pare preso dal codice penale, chiamano “condizionale di dissociazione”. E’ quello che consente di prendere le distanze da una notizia non ancora verificata: la donna avrebbe mentito sul suo alibi, ci sarebbe anche un complice, e così via.

 

Non scopro nulla, è un uso ben noto nell’italiano giornalistico che si deve allo scrupolo di correttezza e ancor più alla preoccupazione di evitare querele. Ma leggendo la cronaca nera e la giudiziaria viene il dubbio che ci sia sotto qualcosa d’altro. Fate un semplice esercizio, ripercorrete gli articoli di questi giorni sul caso di Loris Stival, che per un garantista suscita crucci non certo solo grammaticali. Ebbene, se tendete l’orecchio sentirete, dietro ogni condizionale, un indicativo imbrigliato, o malamente camuffato. Si lanciano le congetture più spericolate, le illazioni più selvagge, si evocano a vanvera mitologia e psicoanalisi, si riscopre l’inventario degli stereotipi inquisitoriali, insomma si accusa e si lincia e si spettegola, ma lo si fa dietro lo schermo gentile di tutti quegli avrebbe e di quei sarebbe, illudendosi così di far cosa civile.

 

C’è chi ha definito il condizionale un indicativo addolcito, ed è una definizione che fa specialmente al caso nostro, perché da sempre i sacrifici cruenti intrattengono un rapporto misterioso con la dolcezza (Calasso vi dedicò un capitolo ne “La rovina di Kasch”). In Grecia, per esempio, era prescritto che i sacrificatori nascondessero sul fondo di una innocua cesta d’orzo il pugnale destinato alla macellazione; non tanto per ingannare l’animale, al quale erano offerti dolcetti anch’essi d’orzo, quanto per ingannare sé stessi, per accecarsi deliberatamente sulla natura del gesto che compivano – uno stratagemma a cui è stato dato lo splendido nome di commedia dell’innocenza. Ne avverto un’eco nel condizionale di dissociazione giornalistico, per come accompagna quella moderna forma di macellazione rituale che chiamiamo indagini preliminari. E’ il modo verbale della penombra e delle luci smorzate, diceva il linguista Luca Serianni, e in quella penombra si possono dire cose che suonerebbero atroci nel pieno mezzogiorno dell’indicativo. Si partecipa al linciaggio e ci si dissocia da esso, o anche si lancia il sasso e si nasconde la mano.

 

[**Video_box_2**]Peggio è quando si scaglia la prima pietra e si nasconde l’adultera. Suona surreale, ma è quello che ha fatto Dacia Maraini in un corsivo del 16 dicembre sul Corriere che si apriva così: “Una donna strangola il figlio e subito dopo se ne dimentica, anzi rimuove come direbbe Freud, l’atto compiuto dalle sue stesse mani”. Con tutta la protervia dell’indicativo, che è il modo verbale dell’indice puntato, ma con la voce garbata di una buona zia che offra dolcetti d’orzo, la scrittrice si mangia in un sol boccone primo grado, appello e cassazione. Ma – è qui la malizia – ha cura di omettere nomi e cognomi, e la donna di cui parla potrebbe essere chiunque. Dopo aver psicoanalizzato una perfetta sconosciuta (e non è tanto un problema di presunzione d’innocenza, è un problema di presunzione e basta) prosegue chiacchierando variamente sulla malvagità, la genetica, Medea e non so che altro. E neppure metterebbe conto parlarne se non fosse che l’astuzia della ragione, quella ragione che non governa il mondo ma che ogni tanto ne svela gli arcani, ha guidato la mano del redattore del Corriere che ha così titolato: “L’istinto primordiale che va controllato”.

 

O addolcito, secondo il galateo del garantismo grammaticale.

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