Una scena della serie tv "Romanzo criminale"

Quando la Banda passò

Alessandro Giuli

E quanto vi piace questo romanzo criminale stracittadino, e quanti fremiti d’eccitazione per questa Banda della Magliana che non esiste ma si porta così tanto, con quelle sue screziature fasciocomuniste e catacombali, quelle sue trasversalità galeotte all’ombra del Campidoglio.

E quanto vi piace questo romanzo criminale stracittadino, e quanti fremiti d’eccitazione per questa Banda della Magliana che non esiste (mai dimostrato allora il reato associativo, figuriamoci oggi) ma si porta così tanto, con quelle sue screziature fasciocomuniste e catacombali, quelle sue trasversalità galeotte all’ombra del Campidoglio, quelle sopravvivenze lessicali malandrine, i ferri, le batterie, le stecche, la gente da sdraiare, i pochi (ma buttali via) quattrini da svoltare mungendo la politica, contrabbandati al telefono come ricchezze favolose, robe vintage che riempiono i giornali e le nostre giornate altrimenti meste. Come nella canzone di Mina, “una tristezza così non la sentivo da mai, ma poi la banda arrivò e allora tutto passò”. Quale mafia, dottore Pignatone, qui è tutta una festa a metà tra la sagra rionale e una serata su Sky Atlantic. Da Roma nord a Testaccio, da Ponte Milvio a Ponte Sisto, i pischelli si dicono “stecca para per tutti” quando dividono il resto di un cappuccino, si fanno crescere i baffi come il commissario Scialoja o i guardaspalle del Libanese e del Dandi, recuperando inavvertitamente stilemi e tic a cavallo tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta del secolo scorso. Dentro ci sono tutti: guardie, ladri, innocenti e reduci perfino: i banditi originali che di recente avevano preso a riunirsi nel bar “Da Franco” di Pietralata, dove hanno ambientato la nota fiction. Nessuno, neppure i pm, sembra distinguere il confine tra realtà e invenzione letteraria, delinquenza e parodia, denuncia e intrattenimento. La Banda della Magliana era una larva in bianco e nero fintantoché non l’hanno rianimata i colori e gli eroi del pm-scrittore De Cataldo e del regista Sollima.

 

Qualcosa di simile – lo accennammo l’estate scorsa – era successo poco più di vent’anni fa, quando arrivò in Italia il film “Point break” con Keanu Reeves e Patrick Swayze, che raccontava di quattro surfisti impegnati a rapinare le banche della contea di Los Angeles indossando maschere di Reagan, Lyndon Johnson, Nixon e Carter. Di punto in bianco i settori più “sensibili”, diciamo, dello stadio e delle palestre nere furono agganciati dal vecchio dèmone dei maestri cattivi, quelli della politica gruppettara che si autofinanziava in banca: nacque la Banda del taglierino e svuotò parecchi caveau, prima che, via via che arrestavano i rapinatori, anche gli sbirri cominciassero a svuotare interi spicchi delle curve romane. Ma di mezzo non c’era più la rivoluzione, garriva invece la bandiera dell’edonismo americano. Sicché andavi a trovare l’amico ai domiciliari e al posto di Codreanu trovavi sui muri le sue foto col surf a Ladispoli attaccate accanto al poster con le onde australiane di Bells Beach. Altro che Nero, altro che Banda, altro che mafie: potenza del cinematografo. Erano gli stessi anni in cui, per un malinteso senso di rispetto verso la mala delle generazioni precedenti, nelle ultime catacombe politiche era ancora vietato parlare al telefono di “batterie cariche” a proposito di scooter o automobili: “Come minimo pensano che hai le armi pronte per un colpo, finisci bevuto in un attimo”. Allora suonava ridicolo, chi ci pensava più alle gesta dei testaccini di Renatino, anche se De Pedis l’avevano appena “parcheggiato” in via del Pellegrino. Ora comanda la tivù satellitare, la moda delle serie, una seconda onda anomala insomma. Ed ecco che, di nuovo, “la banda suona per noi, la banda suona per voi”. Se solo esistesse, la Banda.

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