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Turbocoop

Marianna Rizzini

Invisibile sotto la mole di intercettazioni sul caso della 29 giugno, la cooperativa al centro dell’inchiesta “Mafia capitale”, c’è il problema della natura stessa del “no profit”. Perché la storia della coop dei “buoni” non riguarda soltanto Salvatore Buzzi e il comune di Roma.

Roma. Invisibile sotto la mole di intercettazioni sul caso della 29 giugno, la cooperativa al centro dell’inchiesta “Mafia capitale”, c’è il problema della natura stessa del “no profit”. Perché la storia della coop dei “buoni”, formata da un ex detenuto per il recupero di ex detenuti e donne o uomini ai margini della società, con compiti equi e solidali come la pulitura delle strade e l’accoglienza dei rifugiati, non riguarda soltanto Salvatore Buzzi e il comune di Roma. Bisogna anche chiedersi come mai, attorno alle parole “cooperazione”, “integrazione”, “volontariato”, “assistenza”, e attorno all’alibi del “fare del bene”, spesso si creino quantomeno sospetti di crimine (se non veri crimini), che si tratti di una Missione arcobaleno sponsorizzata dal governo (con relative ombre di opacità varie sulle operazioni di aiuto alle popolazioni civili in situazioni di conflitto, come accadde nel 1999 ai tempi della guerra in Kosovo) o di una mensa universitaria e scolastica nata inizialmente dal volontariato (famigerato fu il caso della Cascina, esploso a inizio Millennio tra Bari e Roma) o di un corso di formazione (come a Messina l’anno scorso, con arresto dell’ex deputato pd Francantonio Genovese). O, infine, di una “grande cooperativa di servizi socio-sanitari come la Icos in Lombardia” che, racconta Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza cooperative sociali, “si è trovata al centro delle polemiche sullo sfondo del governo regionale di Roberto Formigoni”. Le cooperative devono essere “pro market” o “pro social”?, si è chiesto la settimana scorsa l’Espresso, in un articolo di Roberta Carlini. Guerini dice al Foglio che “bisogna prima di tutto riflettere sulla fragilità del sistema cooperativo e dire no al gigantismo di chi si occupa di tutto, dai servizi di portineria all’accoglienza, come la cooperativa 29 giugno, passata in pochi anni da 3 a 60 milioni di euro di fatturato”. “Se uno ‘fa il bene’, non è detto che automaticamente lo faccia bene. E’ vero il contrario, magari, ma se sei un’associazione no profit i controlli latitano. Perché non si controlla di più?”.

 

Dalle pagine di Vita, rivista del no profit, emerge il dubbio che la prevista riforma del Terzo settore (pure sostenuta), annunciata dal premier Matteo Renzi qualche mese fa, non basti a scardinare le pigrizie e i vizi di un sistema che non si sente “malato” perché tanto, appunto, “fa del bene”. Serve un cambio di mentalità. Il direttore editoriale di Vita, Riccardo Bonacina, invita a riflettere sul fatto che il settore no profit è “fortemente intermediato dal pubblico”, e però “il pubblico che eroga finanziamenti non controlla”. Smettiamo di “chiedere soldi”, dice, e “domandiamoci come sono usati quelli che abbiamo”. Johnny Dotti, ex presidente Cgm e presidente di Welfare Italia, convinto che “nessuna forma giuridica ti metta al riparo dal male insito nell’animo umano”, indica nella “mediazione statale” per i servizi “no profit” la prima delle storture. Il problema è anche la mancanza di concorrenza capitalistica. Intanto, dice Dotti, “bisognerebbe defiscalizzare per ridare ai cittadini potere di scelta sui servizi”. Chi lavora nella cooperazione “dal basso”, come Marco Ehlardo, autore del saggio “Terzo settore in fondo”, pensa che quello delle cooperative malate sia “un segreto di Pulcinella”, al pari degli scandali nel mondo dell’accoglienza: “Si specula sull’emergenza, magari spendendo di più per accogliere i rifugiati in albergo dopo aver detto che i soldi per l’accoglienza standard non ci sono”. Dal sito del Post Francesco Maggio, ricercatore e giornalista esperto di Terzo settore, invita alla “rottamazione”: il problema è anche generazionale, scrive, e nella propensione all’“autorappresentazione apologetica”. In attesa che il Parlamento legiferi, gli esperti di no profit chiedono alle cooperative di rendere valutabile, prima di tutto, il loro “impatto sociale”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.