Mario Draghi (foto LaPresse)

Roma perde rating

Draghi e l'Italia di Renzi al tempo della nuova guerra delle Nazioni

Marco Valerio Lo Prete

Perfino nelle stanze della Corte di giustizia dell’Unione europea, nel placido Granducato del Lussemburgo – mini stato fondatore dell’Unione europea, incastonato tra Germania, Francia e Belgio – da qualche tempo si avverte un’insolita pressione.

Roma. Perfino nelle stanze della Corte di giustizia dell’Unione europea, nel placido Granducato del Lussemburgo – mini stato fondatore dell’Unione europea, incastonato tra Germania, Francia e Belgio – da qualche tempo si avverte un’insolita pressione. E’ il ritorno in grande stile della geopolitica all’interno dei confini dell’Europa unita, anche in quei luoghi – “comunitari” per definizione – in cui si pensava di aver anestetizzato per sempre l’interesse nazionale. Era stato così per decenni, specialmente nella Corte di giustizia che fin dal 1952 assicura “il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione” dei Trattati europei, a suon di sentenze storiche sulla libertà di circolazione o sui diritti fondamentali. Dall’estate 2012 però qualcosa è cambiato, da quando la Corte costituzionale tedesca ha messo in dubbio le Outright monetary transactions (Omt) inventate della Banca centrale europea per placare lo spread, rinviando per il momento alla Corte del Lussemburgo il giudizio sull’eventuale acquisto condizionato di titoli di stato della Bce. Da allora non sono poche le volte in cui il greco Vassilios Skouris, stimato presidente della Corte europea dal 2003, apre i giornali internazionali e strabuzza gli occhi con i colleghi degli altri 27 paesi membri. Davvero la Bundesbank è stata così dura con il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi? Davvero il governo di Berlino si è espresso in questi termini critici sulla politica monetaria, per definizione autonoma? Una spiegazione c’è: da quando i greci hanno ammesso di aver detto il falso sui loro conti pubblici, facendo sì che la crisi finanziaria globale si trasformasse in Europa in crisi dei debiti sovrani, si è inceppato qualcosa nell’establishment di molti paesi, specialmente nordici. E adesso ristabilire la fiducia tra partner storici sta richiedendo più tempo del previsto. Peccato che la crisi economica abbia contemporaneamente svelato tutti i limiti dell’architettura istituzionale dell’Eurozona, riducendo il tempo a disposizione.
La ripresa economica, per consenso praticamente unanime, continua a risentirne. A novembre gli Stati Uniti hanno creato 321 mila posti di lavoro, quasi 100 mila in più delle attese; ora, con un tasso di disoccupazione al 5,8 per cento e una crescita attesa del pil di 2,5 punti, si avvicina il momento in cui la Fed alzerà i tassi di riferimento. Da questa parte dell’Atlantico, tutt’altro scenario: la Bundesbank ieri ha tagliato le stime di crescita di quella che dovrebbe essere la locomotiva dell’Eurozona, la Germania, da più 1,9 a più 1,4 per cento nel 2014; ancora peggio l’anno prossimo. Figurarsi gli altri: ieri Standard & Poor’s ha declassato ancora il debito pubblico italiano, a “BBB–”; 48 ore fa la Banca centrale europea non solo ha detto che l’area della moneta unica crescerà appena dello 0,8 per cento, ha aggiunto che l’inflazione si fermerà allo 0,5 per cento, sempre più distante dall’obiettivo del 2 per cento. Perfino lo scoppiettante Regno Unito, dal 2017, teme il contagio europeo. Eppure pesa l’irrigidimento dettato dal ritorno della geopolitica nel dibattito europeo. Ieri infatti Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, non ha voluto mancare l’appuntamento con il solito controcanto a Mario Draghi. Il presidente della Bce, due giorni fa, aveva certificato l’avvicinarsi del Quantitative easing, cioè l’“allentamento monetario” che coincide con una svolta americana e pro crescita della politica monetaria; ed ecco che ieri Weidmann ha precisato che la politica della Bce è già “troppo espansiva per la Germania”. E’ l’interesse nazionale declinato in versione monetaria, dichiarato urbi et orbi senza patemi d’animo.

 

Draghi per il momento non si è lasciato impressionare. Perché vorrà pur dire qualcosa se oggi gli analisti più pessimisti sul futuro dell’Eurozona sono quelli della banca d’affari giapponese Nomura: prevedono un’inflazione allo 0,2 per cento il prossimo anno. Loro sì che s’intendono di “decenni perduti” tra crescita azzerata, inflazione stagnante e debito montante. “I rischi di fare ‘troppo poco’ sono maggiori di quelli di fare ‘troppo’”, aveva detto Draghi lo scorso agosto a Jackson Hole. E la linea di politica monetaria della Bce rimane quella, confermata e ulteriormente dettagliata giovedì scorso. Il Quantitative easing si avvicina inesorabile, anche se tra gli addetti ai lavori già non mancano gli scettici. Si chiedono, per esempio: con rendimenti sui titoli sovrani tedeschi, italiani e spagnoli già ai minimi storici, cosa potrà cambiare davvero un acquisto centralizzato di bond sovrani a Francoforte? Cambierebbe tutto politicamente, rispondono autorevoli colleghi di Draghi. La Bce che compra Btp italiani in quantità e se ne fa carico sul suo bilancio: un passo talmente in avanti che quasi è impossibile immaginare come sarà l’attimo in cui accadrà davvero.

 

[**Video_box_2**]Sulle modalità tecniche del Quantitative easing a Francoforte si sta lavorando. Comprare titoli del debito sovrano favorendo gli stati periferici può essere difficile politicamente; comprarli in proporzione alle quote nazionali nel capitale della Bce può essere inefficace; comprarli facendo sì che le Banche centrali nazionali restino garanti è un’altra ipotesi; infine non si escludono forme di “impacchettamento” dei diversi titoli sovrani in strumenti che ricordano i derivati (c’è letteratura scientifica in proposito, perfino tedesca). Si vedrà. Politicamente, però, sarebbe comunque una risposta potentissima a quegli esponenti politici o tecnocratici che da qualche anno, comprensibilmente istigati in un primo momento dall’eccessiva flemma riformatrice di certi leader dell’Europa periferica, hanno ecceduto nella risposta eguale e contraria. Al punto da cingere d’assedio e turbare, con il loro muoversi in base a schemi geopolitici che si ritenevano superati nella moneta unica, le istituzioni europee. Sono stati i mercati infatti, cioè gli investitori, a percepire per primi il rischio sgretolamento dell’area valutaria. Draghi nel 2012 ci mise una pezza, anzi qualcosa di più, ma l’onda lunga non è ancora finita. Ieri Standard & Poor’s ha tagliato il rating sovrano dell’Italia da “BBB” a “BBB–”, a un passo dal livello “spazzatura” che può far scattare le vendite. Proprio ieri mattina, da Francoforte, il ministro dell’Economia Padoan rassicurava: il debito pubblico italiano è tra i più sostenibili.

 

Comunque l’establishment italiano per adesso prende atto che un livello minimo di fiducia tra partner non è ancora ristabilito. Quanto accaduto a fine ottobre con i risultati degli stress test bancari docet. La Banca d’Italia non ha nascosto la sensazione che criteri punitivi verso il nostro paese abbiano prevalso nel Single Supervisory Mechanism, l’organismo affiliato alla Bce e deputato alla supervisione comune. Pure in quel caso la geopolitica, all’interno di un processo che doveva essere di natura tecnica, avrebbe prevalso. Prendendo un po’ in contropiede grand commis italiani cresciuti a pane, economia ed europeismo.
L’acquisto a piene mani di bond statali da parte della Bce, dunque, riequilibrerebbe la situazione. A parlare, agli occhi degli investitori, sarebbero i bond statali dei diversi paesi dell’Eurozona, comprati da Draghi e finalmente uniti nel bilancio della Bce. Ammesso pure che il livello dei prezzi non decolli immediatamente, alleggerendo almeno un po’ il peso reale dei debiti e quello dell’aggiustamento competitivo, la condivisione di sorti e rischi futuri sarà evidente. A quel punto sarà nell’interesse di tutti, Berlino inclusa, dismettere certi atteggiamenti poco cooperativi. Al punto che non manca chi sostiene che il solo annuncio espansivo di Draghi, così temuto in Germania, contenga un messaggio anch’esso politico: o il paese leader dell’euro rilancia la sua domanda interna e acconsente a investimenti comuni, oppure la politica monetaria si dovrà a maggior ragione muovere in terra incognita. Allo stesso tempo paesi come l’Italia stanno facendo di tutto per spingere Draghi in quella direzione. Lo dimostra per esempio l’approvazione del Jobs Act del governo Renzi, una riforma che importanti circoli internazionali non hanno mai considerato scontata.

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