Andrea Guerra parla dal palco della Leopolda. Sullo sfondo, Matteo Renzi (foto LaPresse)

L'anti Cottarelli

Metodo, incarichi, modelli. Perché Renzi ha portato Guerra a Palazzo Chigi

Claudio Cerasa

I dossier in gioco sulla politica industriale, il ruolo di raccordo con le partecipate, la continua crescita dei ministeri ombra.

Roma. Senior strategic adviser for business, finance and industry. Il fatto che non esista in italiano una definizione precisa per inquadrare il ruolo che pochi giorni fa Matteo Renzi ha offerto ad Andrea Guerra ci dice molto sul significato della liaison professionale, ufficializzata ieri da Daniele Manca sul Corriere della Sera, tra il presidente del Consiglio e l’ex amministratore delegato di Luxottica. Politicamente, il messaggio che Renzi intende veicolare attraverso la scelta di Guerra a “consulente strategico del premier” appare evidente: questo governo vuole avere un canale prioritario con i grandi manager e i grandi imprenditori; e per accompagnare il processo di sviluppo del paese, avere al proprio fianco un grande manager, portarlo agli appuntamenti che contano, farlo interloquire con gli investitori che contano, farlo triangolare con i capitalisti che contano, trasformarlo in una figura capace di certificare la bontà del made in Italy industriale (Luxottica, tanto per ricordare, è l’azienda con cui Google ha stretto un accordo per produrre i famosi Google Glass), è un modo utile per sostenere e promuovere la propria idea di politica industriale.

 

La mossa di portare Guerra a Palazzo Chigi, seppure a titolo gratuito e seppure per un solo giorno a settimana (ma per tutto il resto, si sa, con il segretario del Pd c’è sempre Whatsapp), rientra in una logica ben definita che è ormai una caratteristica del metodo Renzi: accentrare le competenze dell’esecutivo a Palazzo Chigi, creando quasi dei doppioni dei ministri sul modello anglosassone del governo dello staff, e sfruttare i ministri sempre più come ambasciatori del presidente del Consiglio. I casi sono noti: Yoram Gutgeld è il ministro ombra dell’Economia, Filippo Taddei è il ministro ombra del Lavoro, Carlotta de Franceschi è il ministro ombra delle Finanze, Marco Simoni è il responsabile ombra del Commercio estero, Luca Lotti è il ministro ombra di una decina di ministeri e lo stesso Andrea Guerra (lo riconoscono con rammarico anche al Mise) è destinato a diventare, in prospettiva, il ministro dello Sviluppo ombra del governo Chigi (Guerra è figura nota dal punto di vista manageriale, nel 2014 è stato nominato dalla  Thomson Reuters secondo migliore ad di Italia dopo Mario Greco, ma meno nota dal punto di vista delle relazioni personali, anche nel mondo della politica: l’ex ad, per dirne una, è uno dei più cari amici del governatore del Lazio Nicola Zingaretti). Al di là delle valutazioni che si possono dare sull’indole accentratrice di Renzi, il ruolo di Guerra (ruolo che Renzi ha in testa da tempo, che ha testato portandosi Guerra prima al g20 in Australia e poi in una serie di incontri a Roma a ottobre con alcuni pezzi grossi dell’industria cinese, e che all’inizio della sua esperienza a Palazzo Chigi il premier avrebbe voluto affidare all’amico Marco Carrai) merita di essere preso in considerazione per diverse ragioni. La prima è legata a un dato culturale importante: nella storia recente della nostra repubblica non si ricordano casi di grandi manager coinvolti da un presidente del Consiglio nell’attività di governo. E per trovare casi simili occorre, appunto, cambiare lingua e uscire dall’Italia. Occorre ricordare il caso di Bill Daley, ex pezzo grosso di JpMorgan, consigliere prima di Al Gore e quindi di Clinton e in seguito capo di gabinetto dello stesso Obama. O il caso di Louis Gallois, ex capo di Eads, oggi ai vertici del gruppo Psa (Peugeot Citroën), scelto nel 2012 dal presidente Hollande per la scrittura di un piano strategico per la competitività. O ancora il caso di Adrian Beecroft, famoso manager inglese a capo di vari importanti fondi di investimento (Dawn Capital), scelto da David Cameron per formulare una proposta di riforma del mercato del lavoro. O, per fare un salto nel passato, il celebre caso di Donald Regan, ex numero uno di Merrill Lynch, scelto dal quasi omonimo Reagan come capo dello staff nel 1985. La seconda ragione è più pratica: il modello Guerra è radicalmente diverso dal modello Cottarelli (che poi ha fatto la fine che ha fatto), ed è significativo che Renzi abbia scelto di usare un tecnico per costruire e non solo per tagliare. Nella sostanza, ha ragione il Corriere a scrivere che la prima missione operativa di Guerra sarà quella di prendere in carico il dossier Ilva (dossier che fino ad ora era invece in carico al Mise, il cui ministro è stato l’unico nel governo a essere avvertita con anticipo della nomina). L’intenzione di Renzi, però, è quella di sfruttare le competenze di Guerra per estenderle anche in altri ambiti (cantieristica, farmaceutica, chimica), sfruttando per quanto possibile la sua conoscenza nel settore consumi (ambito di cui Guerra si è occupato a lungo in Luxottica) e affidandogli il compito di diventare il pivot nell’ambito di quelle politiche industriali in cui lo stato ha un peso importante. Obiettivo implicito e tutto da realizzare è dare a Guerra il compito di creare un raccordo tra Chigi e le grandi partecipate dal Mef. E qui la storia si fa interessante.

 

[**Video_box_2**]Il ragionamento vale per molti ambiti ma soprattutto vale per tre in particolare. Con Finmeccanica, la cui ristrutturazione partirà nel 2015. Con il Fondo Strategico, che gestirà direttamente l’operazione Ilva (Guerra, tra l’altro, fa già parte del comitato strategico del Fondo). E, dossier ancora più interessante, con il mondo della Cassa depositi e prestiti. Renzi ha un rapporto non consolidato con l’attuale amministratore delegato della Cassa, Giovanni Gorno Tempini. Lo considera competente e leale ma legato a percorsi distanti da quelli dell’éra Leopolda. E in ambienti governativi diverse fonti sostengono che l’arrivo di Guerra sia da inquadrare anche rispetto agli scenari futuri di Cdp. Il mandato di Gorno Tempini scadrà nell’aprile 2016 ma qualche settimana fa è stato fatto notare al premier un passaggio non irrilevante. Gorno Tempini è indagato dalla procura di Trani per una vecchia vicenda di derivati (ai tempi era ad della banca Caboto) e nel caso di rinvio a giudizio, secondo l’articolo 15 dello statuto di Cdp, gli azionisti della Cassa dovrebbero valutare l’ipotesi della decadenza dell’ad. E per l’idea che ha Renzi di come potrebbe essere un domani la Cassa, un profilo come Guerra sarebbe fit to lead Cdp. Dal punto di vista giudiziario la posizione di Gorno Tempini sembra solida e per coerenza Renzi dovrebbe spingere l’azionista principale di Cdp (il Mef) a non farsi condizionare da una procura. Questo in linea teorica. Se poi le vicende giudiziarie diventeranno un pretesto per cambiare il verso di Cdp, questa è davvero tutta un’altra storia.

 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.