Lavoratori dell'Ilva di Taranto (foto LaPresse)

Tuffarsi nell'acciaio

Alberto Brambilla

L’intervento di Renzi sull’Ilva, tra tatticismi anti Cgil e ipotesi nazionalizzazione. Alla ricerca di “un piano” dietro le quinte.

Roma. Non era scontato che il presidente del Consiglio Matteo Renzi s’appropriasse del dossier dell’acciaieria Ilva. Per dieci mesi aveva preferito non intervenire davvero su quella che è la prima azienda italiana per numero di addetti, un architrave della manifattura nazionale. L’idea di un “intervento pubblico temporaneo”, lanciata con tre laconiche frasi in un’intervista a Repubblica domenica scorsa, è stata un’indicazione dagli effetti dirompenti. La complessa vicenda finanziaria, industriale e giudiziaria della più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa stava mutando in una depressione produttiva cronica: difficoltà a pagare fornitori, stipendi e, in un prossimo futuro, a comprare i minerali necessari a produrre la ghisa, lega base dell’acciaio. Parlare di intervento pubblico è stato tatticamente utile a Renzi per anticipare il segretario della Cgil, Susanna Camusso, alla vigilia della sua visita a Taranto, privandola cioè della prima mossa. Camusso, arrivata ieri per la prima volta all’Ilva, anziché gridare in solitaria al ritorno dello stato acciaiere, ha dovuto dare ragione al premier, invocando addirittura una “nazionalizzazione” tout court davanti a operai e quadri. “Nazionalizzazione” non è un’eresia per l’acciaio europeo: ci ha provato di recente anche François Hollande a Florange, senza successo. Nemmeno una partecipazione di un ente pubblico lo è: la tedesca Salzgitter, paragonabile a Ilva per produzione attuale, è quotata in Borsa e la maggioranza relativa è del Land della Sassonia. Ma non è esattamente quell’intervento limitato per “due o tre anni per poi vendere ai privati” ipotizzato da Renzi. Tuttavia il ballon d’essai s’è gonfiato a dismisura, al punto da autorizzare il presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, a sperare che l’Ilva torni nell’abbraccio di Roma e lì resti per sempre (“non è detto che debba scattare per forza la vendita di nuovo ai privati”). Fughe in avanti costruite sulle esternazioni di un premier maestro nel bruciare le tappe.

 

D’altronde l’acciaio di stato accomuna fazioni storicamente distanti, esalta un’eterogenea platea di tifosi – sindacati confederali e autonomi dell’Ilva, la frangia dalemiana del Pd, quella camussiana, la lobby degli acciaieri Federacciai, s’è convertito perfino Lamberto Dini che da premier consegnò l’Italsider alla famiglia Riva nel 1995 – e rilassa i fumantini tarantini. Lo stato padrone rassicura parecchi, anche se è difficile si ripeta un ritorno delle partecipazioni pubbliche à la Iri, del consociativismo dell’Italsider, di una riproposizione del medioevo industriale del capoluogo ionico. Renzi è entrato a piè pari in una partita che il commissario governativo dell’Ilva, Piero Gnudi, stava gestendo democristianamente. Gnudi ha cercato di attrarre il maggiore numero  possibile di investitori interessati a comprare una quota dell’Ilva con l’obiettivo di indire  una specie di asta. Alla fine erano due i blocchi in campo. Da un lato il gruppo siderurgico privato più importante del mondo, ArcelorMittal, insieme al gruppo Marcegaglia; con formale manifestazione d’interesse non vincolante, ma senza proposta d’acquisto né piano industriale. Dall’altro, una cordata di acciaieri italiani capitanata, secondo le indicazioni di Federacciai, da Arvedi. Arvedi ha una posizione finanziaria debole, è sotto l’attenzione dell’autorità giudiziaria di Cremona per una serie di incidenti alle linee produttive della sua acciaieria. Dalla stessa Arvedi arrivano stime choc sulle perdite future dell’Ilva: 2,5-3 miliardi in tre anni, dice la società di consulenza McKinsey. Un biennio di curatele statali darebbe forse il tempo necessario alla cordata di Federacciai per rafforzarsi? Sia nel caso di Marcegaglia sia di Arvedi s’è ipotizzato un intervento a sostegno della Cassa depositi e prestiti o di una sua controllata; evento complicato per vincoli statutari della Cdp e per insufficienti risorse a disposizione, che si parli del Fondo strategico o di Fintecna. Un ruolo della Cdp è sempre nell’aria, purché vi siano “proposte lavorabili”.

 

[**Video_box_2**]Alcuni osservatori ora ritengono che Renzi si è spinto così avanti perché ha un piano, come Barack Obama l’aveva nel 2009 per le Case automobilistiche di Detroit. Al momento, però, ci sono ragioni per dubitare. “Stiamo parlando di un intervento pubblico le cui misure non sono definite”, si dice al ministero dello Sviluppo economico dove non c’è consenso sul da farsi. L’ipotesi è embrionale, se ne discuterà ai massimi livelli dell’esecutivo (non giovedì come sembrava fino a ieri, perché il ministro dello Sviluppo Federica Guidi sarà a Bruxelles). Si parla di un fallimento pilotato ricorrendo alla legge Marzano o similia – senza che l’Ilva sia in realtà insolvente – da infilare come emendamento nella legge di stabilità oppure con un decreto ad hoc dal quale scaturirebbe una tortuosa procedura concorsuale che darebbe un colpo durissimo ai 400 fornitori dell’Ilva (dovrebbero rinunciare a parte dei crediti che già faticano a ottenere). Il rischio è di creare un altro mostro giuridico. Comunque bisognerebbe interpellare i proprietari dell’Ilva commissariata, la famiglia Riva (col 90 per cento) e gli Amenduni (10 per cento). Altra ipotesi, svelata dal Sole 24 Ore, è l’intervento diretto “con una motivazione di tipo tecnologico ambientale” finalizzato a rendere meno inquinante lo stabilimento e metterlo in linea con le migliori tecnologie disponibili (costo stimato: 1,8 miliardi), escamotage che schiverebbe le pungolature della Commissione Ue, guardinga sugli aiuti di stato, e rappresenterebbe una sfida inedita alla magistratura di Taranto che tiene sotto sequestro l’area a caldo e vigila sulle bonifiche. Renzi s’è buttato, avrà bisogno di massimo sostegno per non rimanere scottato. 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.