Raffaele Fitto (foto LaPresse)

Da Gallipoli a Maglie

Quante divisioni ha Fitto e perché ne parla spesso con D'Alema

Salvatore Merlo

Sinergie pugliesi dalla prima Repubblica al prossimo inquilino del Quirinale. La fronda di FI e i calcoli di Verdini. Tutti i malmostosi del Cav.

Roma. Diceva Pinuccio Tatarella: “Gallipoli? Lì dobbiamo perdere sempre”. E così ogni volta che gli parlano di Raffaele Fitto, Silvio Berlusconi ancora oggi fa un accenno a Massimo D’Alema e agli intrighi pugliesi, e insomma a un balletto di patti invisibili, veri e presunti, a tutto un tirar di giacche salentine, a un ammiccare tra Gallipoli e il Quirinale, a un venirsi dietro l’uno con l’altro a passo di pizzica. D’altra parte, con il padre di Raffaele, con Salvatore Fitto, negli anni Ottanta fu D’Alema a inaugurare in Puglia la stagione delle giunte anomale: Dc e Pci alleati per tenere fuori il Psi di Craxi. Una tradizione di complicità e alleanze mondane, un conciliabolo d’ombre amichevoli conservato per decenni, con alterne vicende e fortune. Ma quello del Cavaliere, oggi, è un surf temerario sul vento di fronda che spira nei corridoi della sua Forza Italia, è un’allusione al gioco di specchi deformanti già iniziato sotto il trono di Giorgio Napolitano, un conflitto di pettegolezzi, messaggi occulti cui non si sottrae nemmeno Matteo Renzi, con la sua disinvoltura brutale. “Per l’elezione del presidente della Repubblica non sto parlando con Fitto… Se non sono male informato, sono altri nel Pd che ci parlano”. E tutti sanno che se a Gallipoli doveva perdere sempre la destra, come diceva Tatarella, a Bari doveva invece perdere sempre la sinistra. Così il 13 maggio del 2001, per dire, in quell’angolo di levante italiano chiamato Gallipoli, Alfredo Mantovano (poco amato da Fitto) venne battuto da D’Alema nel collegio uninominale, mentre al comune il centrodestra (di Fitto) stravinse. E quando nel 2010, alle regionali pugliesi, il centrodestra candidò Rocco Palese, braccio destro, quasi fratello del giovane Raffaele, che venne sconfitto, Berlusconi perse la regione ma anche le staffe: “L’avete fatto apposta”. Ed è così che oggi Raffaele Fitto da Maglie, ex ministro ed ex presidente della Puglia, campione di preferenze, uomo senza età, senza vizi gravi, e forse anche senza audacia, è diventato all’improvviso oggetto d’attenzione e di studio: è lo spiffero in ogni fessura del Palazzo. Renzi alimenta la leggenda della sua amicizia con D’Alema, e anche Berlusconi tiene il pallottoliere sotto mano. “Ma quanti voti ha Raffaele in Parlamento?”.

 

Così Denis Verdini, che in Forza Italia è una specie di termometro, segnalatore di temperature e movimenti sotterranei, uomo di calcoli e ingegnerie politiche, risponde a Berlusconi: “Dodici li ha eletti lui. Ma poi intorno a Fitto c’è tutto un consorzio del mal di pancia”. E nel vasto insieme degli offesi, i soci del noto consorzio diventano “quaranta su centoventi parlamentari”. E ci sono dunque i pugliesi (gruppo etnicamente molto consistente), dalla “A” di  Francesco Maria Amoruso alla “Z” di Vittorio Zizza. E c’è poi la melassa degli arrabbiati vari. I campani, che un po’ ce l’hanno con Francesca Pascale: Ciro Falanga, Domenico De Siano, Eva Longo, Vincenzo D’Anna, Antonio Milo. I calabresi, che non si sentono premiati: Pino Galati (che voleva essere coordinatore regionale al posto di Jole Santelli) e Peppe Raffa. I siciliani, che rappresentano il potere esploso di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo: Saverio Romano (anche lui voleva fare il coordinatore regionale in Sicilia), Innocenzo Leontini, Antonio Scavone… La lista è lunga e non basta il Foglio.

 

[**Video_box_2**]I parlamentari e i dirigenti di Forza Italia sono immusoniti per le nomine dei coordinatori regionali e per la composizione dell’ufficio di presidenza (in cui il Cavaliere ha aggiunto d’imperio un elenco infinito di membri oltre a quelli che ne avevano diritto: “Perché Alessandro Cattaneo sì, e io no?”). Il partito è tutta una giostra di musi lunghi per l’attribuzione degli incarichi (persino per la tesoreria affidata a Maria Rosaria Rossi) e anche per la gestione della comunicazione (feudo di Deborah Bergamini), cioè delle presenze in tivù. E poi ancora per le gelosie che scatenano i circoli di Marcello Fiori, per i giovani di villa Gernetto selezionati da  Giovanni Toti… E all’elenco si potrebbero aggiungere pure i membri del Consiglio nazionale che il 16 novembre 2013, al momento della conta, contribuirono a mettere in minoranza Angelino Alfano lavorando ai fianchi il tentativo di putsch dell’ex delfino. Sono quasi tutti ancora fedeli al Cavaliere, ma sono tutti in lacrime per qualche motivo: Manuela Repetti (voleva essere portavoce di Forza Italia), Mario Mantovani (voleva fare il coordinatore della Lombardia). E poi l’ex governatore sardo, Ugo Cappellacci, l’ex ministro Stefania Prestigiacomo (rimasta senza medaglie e pennacchi) e persino Maurizio Gasparri. Non a caso, tempo fa, Daniela Santanchè disse: “Il malumore non ha niente a che vedere con il patto del Nazareno. E nemmeno è una cosa del tutto controllata da Fitto. Si tratta di cazzetti personali”, che potrebbero tuttavia complicare, con l’ausilio del gatto D’Alema, quel crudele gioco di sepolture politiche chiamato elezione del capo dello stato. D’altra parte se lo ricordano ancora tutti il giorno in cui Roberto De Santis, imprenditore e uomo invisibile del dalemismo (nonché compaesano di Fitto), portò D’Alema, allora segretario del Pds, a pranzo dal giovane Raffaele: “Dovresti candidarti con noi”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.