Raffaele Fitto (foto LaPresse)

Toh, chi si rivede! Ecco i fasciodemocristiani a testuggine intorno a Fitto

Stefano Di Michele

Tra democristianeria (soprattutto andreottiana de Roma) e fascisteria, una certa attrazione c’è sempre stata. Ci furono persino camerati che accusarono Fini, all’epilogo della sua vicenda politica, di essersi mutato in “democristiano di sinistra”, francamente un po’ troppo.

Tra democristianeria (soprattutto andreottiana de Roma) e fascisteria (a Fiuggi passata, non del tutto smacchiata), una certa attrazione c’è sempre stata. Ci furono persino camerati che accusarono Fini, all’epilogo della sua vicenda politica, di essersi mutato in “democristiano di sinistra”, francamente un po’ troppo – tenendo peraltro conto che certi di loro, nei tardi anni Ottanta, andavano gagliardi e giovanili in corteo, e sotto il balcone di Palazzo Venezia innalzavano voci e cori e braccia: “Fini, Fini / il nuovo Mussolini!”: per dire che un abbaglio è sempre possibile – ma lo stesso tra Fiamma che ardeva e Scudocrociato che si ergeva una curiosa, solida attrazione persisteva. Perciò, quando l’altro giorno, nella platea festevole che accoglieva Raffaele Fitto – lampascione pugliese democristiano in modi e parole e nei saggiamente rivendicati quarti di nobiltà, che allo Cavaliere con la sua armata vuol muovere guerra, “dovete seguire et pugnare!” – si sono notati antichi virgulti missini quali Francesco Storace e Gianni Alemanno e Adolfo Urso, diversissimi tra loro, ma tutti pugnatori di conio, e finiani di fede un dì incrollabile quale Andrea Ronchi, è stato facile pensare: ci risiamo. Così, la diaspora infinita dell’antico stato maggiore di An, che la democristianeria fuggiva ma che alla democristianeria finisce col riconsegnarsi e arrendersi, riporta in scena quell’antica (fatale) attrazione che già attraversava cronache e storie della Prima Repubblica.

 

Ora, senza stare a rivangare la storia del governo Tambroni o dell’elezione al Quirinale di Leone, ormai piuttosto preistoria, basta pensare all’epica vicenda (appunto romana, appunto andreottiana) di Vittorio Sbardella – che più di ogni altro temerario si rivelò, non essendo il fascista che nella Dc si faceva accasare, ma il fu fascista che l’intera Dc romana (satolla allora di voti, potere e tessere) conquistò e sottomise: segreteria, sindaco, pure scuola di partito nella mitica via Pompeo Magno. Nel parapiglia, a un certo punto, ci andò di mezzo persino il cardinal vicario, e lo scontro giunse fino ad Andreotti. Una storia fenomenale, roba mai vista fino ad allora, con le cronache di tutti i giornali che traboccavano delle gesta di questo gruppo che faceva infuriare De Mita, schierare Cielle, indignare i meglio democratici. Fu storia che durò fino a quando tutto durò – allora che con Tangentopoli finì non solo la Roma di Sbardella, ma pure la storia di tutti gli altri. Però, fino all’ultimo Sbardella restò quel fenomenale personaggio che era arrivato a scalare Campidoglio e Colosseo. Fu la malattia, poi, a toglierlo di mezzo: “E nun me fate er solito articolo sul boxer, sul fascista. Stavolta so’ cazzi seri!”, diceva al cronista dell’Unità. “So’ cattolico, mica santo”.

 

[**Video_box_2**]Poi, le reciproche transumanze – squagliato il Msi, squagliata la Dc, squagliata la Prima Repubblica tutta – si infittirono, dapprima con qualche spiffero di residua indignazione (due personaggi, in una vignetta di Ellekappa sul quotidiano del Pds: “Il regime democristiano sta morendo”. “Non vorrei che al funerale, con la scusa del lutto, qualcuno si presentasse con la camicia nera”). Il tana libera tutti fu la creazione di An – e perciò ecco entrare in pompa magna, nel partito che fascista fu e fascista non era più (insomma, la camicia nera ormai la portava solo l’on. Tassi: il celeste impiegatizio dominava, e così la transumanza facilitava), democristiani come Publio Fiori (che divenne ministro), l’avvocato Mazzocchi (“la Provvidenza! Io credo nella Provvidenza!”, assicurava al giornalista dopo l’avvento di Fini e l’elezione alla Camera), Gustavo Selva, mitico direttore di “Radio Belva”, già europarlamentare dicì – mentre disperato per la sacrilega contaminazione ruggiva solitario er Pecora. C’era pure Giuseppe Ciarrapico, in realtà solo e sempre andreottiano più che democristiano – essendo, a suo parere, l’allora Divo Giulio “il principale”. Più altri, molti, minori e dimenticabili.

 

Ma ciò che della Dc era, inevitabilmente alla Dc torna. E il percorso che in quei primi anni Novanta dal disfacimento di Piazza del Gesù conduceva alle luminarie di Via della Scrofa, adesso viene fatto in senso inverso. Tra tutti i (fu?) berlusconiani (categoria ormai vastissima, ove eresia e ortodossia si sommano, si mischiano e del tutto si confondono, e dove il residuato del biancofiore pareva essersi sciolto come Citrosodina nell’acqua) ancora su piazza, è proprio Fitto quello più graniticamente democristiano (“parroco pugliese!”, gli ha urlato contro il Cav. esasperato), il custode di antichi sapori che paiono sempre sul punto di sparire dagli scaffali e che invece, stagionalmente, tornano sul mercato (a destra, a sinistra) della politica – della speranza, e forse della disperazione politica.