Silvio Berlusconi a Villa Gernetto. A caccia del, o della, simil-Renzi per il futuro di Forza Italia

Il Cav. fa come il Duke

Stefano Di Michele

Alla ricerca febbrile dell’altro o dell’altra Renzi. John Wayne è il role model del mandriano-pedagogo che si fa cacciatore di teste. Ma è tutto anche un gioco.

“La vita è dura. Ed è ancora più dura se sei stupido” (John Wayne)

 

Da Erasmo a Quagliariello, in passato di non poca dottrina il Cav. si è nutrito. Ma l’altro giorno a Villa Gernetto in quel di Lesmo, presso l’erigenda Università della Libertà, fissando la trentina tra pulzelle e maschi virgulti ivi adunati, ha avuto una sorta di rivelazione, un felice disvelamento dopo tanto periglioso circumnavigare: né Tocqueville né Locke, né Von Hayek né Croce, né Pera né Martino né Brunetta. Manco l’Istituto Bruno Leoni, va da sé. John Wayne, piuttosto. John Wayne serve. Il Winchester 1892, altroché. Pure la benda sull’occhio, volendo – a sollievo dell’affliggente uveite, ma soprattutto a evocazione del mitologico “el Grinta” galoppante sul cavallo detto “tutto matto”, non meno di lui in groppa a Forza Italia, partito lietamente squinternato. Lì, nel sobrio teatrino di Villa Gernetto in attesa di mutarsi un dì in aula magna, se ne stava a spiegare al fresco uditorio mirabilia e incognite dell’azione politica – con la stessa cordialità e l’identica pazienza che Antonio Banderas riserva alla gallina Rosita quando discute di fette biscottate – sfidando l’uveite e sfiorando la congiuntivite nello sforzo di vedersi palesare davanti un simil Renzi. Improvvisa, l’epifania (l’ultima), la perfetta metafora pratica e cinematografica necessaria alla nuova intrapresa. Messa da parte una citazione di Adam Smith che proprio in quell’istante gli saliva alle labbra, ha trovato conforto e convergenza nella saggezza di Plutarco, rendendo edotti i fanciulli attruppati (come più tardi il dott. Vespa all’annuale presentazione del corposo manufatto editoriale dello stesso): “Le guerre – ha scandito il Cav. – si vincono con le lance dei giovani e con la saggezza dei vecchi comandanti”. I presenti, pur comprensivi per la battaglia dei temibili fratelli Zappacosta, non davano a occhio e croce l’impressione né di trecento né di trenta pronti per le Termopili, né si intravedeva il Renzi e neppure il Leonida tra le brume brianzole di Lesmo. Ma qui, l’illuminazione: ove soccorre Plutarco, ma soprattutto John Wayne, tra forgiare lance per la battaglia e le stesse lance insegnare a usare. Che in un lampo ha mutato il Cav. in the Duke. Così, idealmente abbigliato, è sbarcato a Roma per l’adunata dei suoi.

 

A Berlusconi, uomo di stato non meno che uomo di sala di proiezione, è tornato in mente “I cowboys”, un film western del 1972 diretto da Mark Rydell, protagonista appunto John Wayne. (Il primo effetto si è visto già nelle ore successive, quando ha promesso: “Sarò più cattivo”, tale e quale uno dei protagonisti del film: “Potrei fare un solo boccone di voi senza strozzarmi, mi basta ungervi la testa e tagliarvi le orecchie”, che ieri infinite volte, col Fitto di Puglia insorgente, avrà ripetuto tra sé e sé). La saggezza (risaputa) del vecchio (con cautela), il Cav. è certo di possederla – il problema è come metterla a frutto, farla compiutamente operativa insieme alle lance, così da forgiare nel cuore della battaglia il Renzi azzurro che verrà. Il film con John Wayne, con largo ingegno, e stupefacente preveggenza, esattamente su ciò si intrattiene. Dunque, nei “Cowboys” Wayne è un mandriano, a nome Will Andersen, che deve condurre la sua mandria in una città lontana. Non ci sono uomini adatti all’impresa, e c’è da fronteggiare il bandito di turno, il feroce Long Hair. Non resta che prendere direttamente dalla scuola undici ragazzotti, addestrarli duramente – in groppa a cavalli briosi, col culo spesso per terra, sudore e polvere, grida e minacce – e farne dei piccoli mandriani, ometti disciplinati in grado di portare trionfalmente le vacche, dopo epico viaggio, al punto di arrivo. I fanciulli, che all’inizio non distinguevano la criniera dalla coda, come la sella dalla pignatta, alla fine tanto forgiati e tosti risultano da stare a loro agio persino in una diretta televisiva di Paolo Del Debbio – “qui si parrà la tua nobilitate”, tra campi rom e occupanti di case. La felice opera cinematografica ha diverse chiavi di lettura: dalla mandria, metafora, con rispetto parlando ma pure con minore disciplina al momento praticata, di Forza Italia; al mandriano generoso e tignoso (che infine la vita all’impresa sacrifica: ma questo non è né necessario né opportuno, eccesso melodrammatico, diciamo), duro ma dal cuore tenero, berlusconiana identificazione; ai poppanti che a fine corso, al ranch non meno che a Villa Gernetto, dovrebbero dominare briglie e pistole e (si suppone) inevitabili emorroidi. Cogliendo il risultato finale e sgominando ogni avversario lungo il percorso.

 

Ora, il problema del Cav. in versione Duke (cowboy macho e pronto alla tenzone, mica come quegli effeminati di “Brokeback Mountain” che si sbaciucchiavano sotto il cielo del Wyoming) non sono tanto i cavalli, né la mandria che disordinatamente pascola, peraltro adesso su meno erbosi terreni, quanto al solito i cavalieri per la missione – che oggettivamente scarseggiano. Di suo, a farsi mandriano pedagogo ci starebbe pure – avendo una certa tendenza, del resto, a concedere paterne benedizioni a eserciti di Silvio, paladini della libertà, apostoli parimenti impegnati, missionari azzurri. E’ la materia prima – da cui forgiare, finalmente, il Renzi suo, che un po’ scarseggia. Periodicamente, giovani leve vengono accasermate, spesso gli stessi in fervida transumanza tra la capitale e la Brianza, e quelle immagini finali, quelle foto di gruppo che – tra chiome abbondantemente phonate, cravatte di pallido azzurro dai vistosi nodi su vestiti scuri, sorrisi impeccabili, lucidi marmi – più che evocare gruppi di cento fiori all’assalto del quartier generale, suggeriscono parenti felicemente adunati in occasione di una cresima in famiglia. Troppa compostezza, per preparare una rivoluzione. La polvere, la Colt, il sudore e i fagioli intorno al fuoco, un rutto e un peto, l’assenza di shampoo e di phon – i Comancheros all’orizzonte, per tacere delle solite ombre rosse – porterebbero di sicuro grande giovamento. Il giorno prima i giornali davano gran conto dell’adunata di Villa Gernetto, sorta di Bad Godesberg azzurra, mandriano sovrano e aspiranti vaccari pronti a riconquistare le perdute praterie. “Siamo contenti che il presidente ci abbia ascoltati uno a uno, prendendo appunti” – pure. Poi, il giorno dopo – visti i titoli, considerato il tutto, tenuto conto del candidato leghista in Emilia che acchiappa voti nonostante la presenza del codino, l’assenza del phon e la latitanza della cravatta – ha derubricato l’insieme a una sorta di piacevole apericena: “Non li ho invitati per un seggio, ma per fargli lezione di comunicazione politica. Tra l’altro non mi ha colpito quasi nessuno, tranne una signora che lavora nel partito, che ha due figli e va già in televisione” (fosse l’altra Renzi, invece dell’altro Renzi?). E siccome c’è rumore di zoccoli non solo nelle sconfinate praterie, ma pure (causa sospetti politici, oltre che equini) nelle reali stalle, ha precisato, sempre col dott. Vespa amabilmente conversando: “Io non ho mai tradito nessun amico, non lo tradirò mai”.

 

[**Video_box_2**]Questa faccenda del Cav. che ogni tanto s’aggira – come il lama Norbu nel film di Bertolucci, alla ricerca del “piccolo Buddha”: a cogliere segnali, sguardi, sogni e presagi – scrutando facce belline, palestrati manufatti, eloquio felice, mentre nelle serate di Arcore pazientemente realizza il suo mandala di sabbia propiziatorio, pare più che altro una fenomenale opera di depistaggio. Oppure vertiginosa impresa, neanche borgesianamente pensabile: non la ricerca dell’altro sé nello specchio in cui ci si rimira (c’è già, si vede con chiarezza: il Renzi Matteo, dalla sorte beffardamente allocato di là), quanto il riflesso dell’immagine stessa di sé dentro quello specchio, da allocare di qua. Difficile cavarne qualcosa. Certo, avendo di suo condotto imprese e uomini, conquistato città e parlamenti, zucche mutate in carrozza e mandrie votanti per sconfinati territori (con annessa “traversata nel deserto” nei giorni più difficili, di acqua e manna ognuno provvedendo), all’opera benissimo potrebbe sovrintendere con risaputa abilità. Allentare le cravatte, scompigliare le chiome, far saltare persino un paio di incisivi: come i giorni adesso richiedono – che è poi la differenza tra costruire Milano 2 o trovarsela edificata, con piscina condominiale già funzionante: mica la stessa cosa. Tutte possibilità che sempre hanno a che fare con l’amata follia di Erasmo, “la fortuna ama le persone non troppo sensate” – e forse l’accesso di (buon) senso, l’imporporarsi del viso in rossori tardo-democristiani, il mutarsi in tanti gatti da appartamento (da solotto) da gattoni randagi come si era, così che pure la fortuna, oltre allo sfumare della linea politica, si scoccia e se ne va.

 

Potrebbe, il Cav. Benissimo, potrebbe. Farsi the Duke. Addestrare pischelli all’uso della mandria e del lazo, fornirli di speroni e fargli guadare il fiume con tutti (o quasi) i bovini al seguito. Provvedere lui a quel minimo di infarinatura per non disperdersi tra le vallate – e non perdersi troppi quadrupedi strada facendo. Opporre citazione a citazione, scrittore a scrittore, spedire il prescelto da Maria De Filippi invece che con il giubbino di Fonzie con la giubba del cap. Jake Cutter (John Wayne, “The Comancheros”, 1961: sempre lui). Opporre al Baricco caro a Renzi il Federico Moccia che ebbe modo di lodare lungamente il Cav. stesso, “il suo essere uomo che crede nei valori fondamentali della vita” – idealmente posizionandolo tre metri sopra il cielo. E se il Renzi originale si sceglie quale colonna sonora i Negrita, “resta ribelle, non ti buttare via”, indirizzare il Renzi 2.0 magari più che verso l’amato Trenet, ottimo per le viaggiatrici di crociera (fascia elettorale peraltro non amplissima), ma un po’ crepuscolare, “que reste-t-il de nos amours / que reste-t-il de ces beaux jours”, verso i Modà, che esibiscono opportuno fraseggio, “eppure gioia, / se penso che son vivo / anche in mezzo al casino. / Eppure gioia, / se penso che da ieri, / io sono ancora in piedi”. Sconsigliare vivamente, nel caso, dibattiti come quello tenuto durante una delle scuole di formazione di giovani: “Nel segno del Cavaliere immortale: i giovani amano Berlusconi” – che più che produrre un nuovo Renzi potrebbe generare fantozziani sbandamenti (Disponghi di me come meglio vuole! Com’è umano lei! Com’è buono lei!). Renzi è uno capace di prendere in uso pure i meglio pensatori, diciamo così, non di sinistra – al Senato, al suo debutto, si fece accompagnare dal geniale Chesterton, “il mondo non finirà mai per la mancanza di meraviglie, ma per la mancanza di meraviglia”, così al modo di Alfano, che confessa di amare l’anarchica locomotiva gucciniana, il Cav. può spingere il suo Renzi 2.0 verso i terreni inesplorati di un Brecht o di un Majakovskij, da cui si possono cavare, oltre che versi che sempre indirizzano verso la bella figura, felici assonanze politico-cromatiche: “Guardo la terra, con un sorriso felice. / Su tutto / intorno / non più il nero / né più il rosso / e neppure più il bianco c’era. / Il globo terrestre / era tutto uno scintillio dorato, / e il cielo / sopra il globo / auroazzurreggiava”. Magari scovare, cerca e ricerca, chi abbia già qualche credito politico di suo – come il sindaco di Perugia, per esempio, Andrea Romizi, che dopo settant’anni ha sconfitto la sinistra in casa: sorriso misurato, parole misurate, invidiabile capigliatura, nonno compagno d’università di Ciampi, un po’ troppo Tolkien ancora (ma così forse acchiappa i voti della Meloni, dal Corriere descritto come “ragazzo schivo, timido e ben educato”. Casomai, un po’ troppo distante dal modello originale).

 

Fosse poi così complicato trovare il Renzi 2.0 che abbisogna alla sorte, c’è da compiere il tentativo sul Matteo 2.0. Quello si aggira più da presso. E non è in fondo, Matteo Salvini, ritratto di mandriano quasi perfetto, capace di cavalcare trattori padani e quadrupedi nordici, che ha portato le sue mandrie leghiste già a valicare il Po là dove bagna la fu rossa Emilia, la felpa e lo scompiglio nello sguardo, uno che al volo capirebbe la lezione del mandriano capo Will Andersen? E infatti ha provato, il Cav. the Duke, a evocarlo quale goleador del centrodestra, facendo lui il regista – come e quale il grande John nei “Cowboys”. Il diretto interessato gli ha risposto evidenziando che pure Maradona faticherebbe al momento (ma appunto a questo supplisce la scuola del mandriano), poi sono cominciati gli strepiti fitti fitti del Fitto (“Suicidio! Suicidio!”) che già ebbe modo di definire “parroco pugliese” – per dire di quanto inadatto a cavalcare la bestia in corsa. E ovviamente i lamentosi alfaniani – a far coro greco dietro l’acuto di Maglie.

 

Potrebbe, il Cav. Come niente. Ma chissà se vuole. Forse non vuole. Magari l’originale, il suo perfetto riflesso nello specchio, vorrebbe. Avrebbe di sicuro voluto. Si cerca i Renzi. Ruotano i Matteo. Tutti in passata transumanza nella casa sua virtuale. Ah, poterlo trattenere, il Renzi giovanotto, alla “Ruota della fortuna”! Ah, se il Salvini studente fosse stato stoppato a “Il pranzo è servito”! Ah, si fosse Renzi stabilmente consegnato alla De Filippi! Ah, che grinta quel Salvini con Del Debbio a Retequattro! Ma ecco, per avere un Renzi pronto all’uso, dovrebbe il Cav. the Duke compiere l’atto estremo, consegnarsi come il mito del Minotauro alla sorte portata da Teseo: essere immolato, col suo stesso corno, dentro il labirinto di Forza Italia, per permettere al giovane erede di salpare con Arianna, e il partito, al seguito. Non pare cosa. Come diceva the Duke l’originale, “un mio amico mi ha detto di sparare prima di fare le domande, stavo per chiedergli perché, ma ho dovuto prima sparare”. Saldo nella lezione del grande mandriano di Hollywood, e col proponimento di essere “più cattivo”, il Cav. sta. Con Renzi (Matteo). Con Matteo (Salvini). O con Fitto, che viene pure più facile.

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