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Dietro agli scontri interni all'Opec c'è la supremazia petrolifera americana

Il surplus petrolifero globale e l’abbassamento dei prezzi al barile rende il summit dei paesi dell’Opec particolarmente teso.

New York. Il surplus petrolifero globale e l’abbassamento dei prezzi al barile rende il summit dei paesi dell’Opec particolarmente teso. I dodici paesi dell’organizzazione degli esportatori di petrolio si riuniscono oggi a Vienna per decidere quanto e come tagliare la quota di greggio da immettere collettivamente nel mercato il prossimo anno per evitare il crollo dei prezzi che danneggia il cartello. Negli ultimi anni trovare un accordo sulle quote per bilanciare il mercato è stato relativamente semplice, ma ora l’Opec si trova in una posizione paradossale: i membri non hanno mai estratto tanto greggio come ora ma contemporaneamente la loro quota di mercato si sta progressivamente riducendo. Venezuela e Ecuador premono per un taglio della produzione per tenere alto il prezzo al barile, la Libia propone di diminuire l’immissione sul mercato di 500 mila barili al giorno, l’Iran fissa la quota necessaria a un milione di barili, ma il governo di Teheran rifiuta di contribuire direttamente all’operazione: “Non estrarremo nemmeno un barile in meno”, ha spiegato il ministro del Petrolio, usando come leva nella trattativa le sanzioni internazionali che, dice, hanno già penalizzato a sufficienza gli affari degli ayatollah. Tutti concordano sulla necessità di ridurre la produzione, ma nessuno vuole fare il primo passo. L’Opec si muove come un collettivo, ma i singoli membri hanno spesso interessi divergenti e diverse soglie di break even diverse. Esempio: per soddisfare le previsioni di bilancio dell’anno in corso l’Arabia Saudita ha bisogno che il prezzo del greggio viaggi intorno ai 99 dollari al barile; per il Venezuela la soglia è 162 dollari. Per questo i sauditi – che per decenni hanno agito da azionisti di maggioranza dell’Opec – ora ostentano sicurezza di fronte all’abbassamento dei prezzi e fanno sapere, attraverso il ministro Ali al Naimi, che “il mercato si stabilizzerà da sé”. Un modo per dire che è arrivato il momento in cui anche gli altri membri devono dare il loro contributo.

 

Le decisioni che verrano prese – se si troverà un accordo – a Vienna condizionano naturalmente anche il più grande esportatore di greggio, la Russia, che non fa parte dell’organizzazione e non è riuscita a trovare un’intesa di massima in vista del summit. Il ministro delle Finanze di Mosca, Anton Siluanov, dice che la flessione del mercato del greggio farà perdere al paese fra i 90 e i 100 miliardi di dollari,  danno economico che equivale al doppio di quello causato dalle sanzioni. L’accordo dell’Opec non è soltanto un affare interno, ma un’enorme questione geopolitica che ha a che fare tanto con la lotta allo Stato islamico quanto con la postura aggressiva della Russia di Vladimir Putin. Dall’altra parte della barricata ci sono gli Stati Uniti, che nonostante le resistenze di Barack Obama e dei democratici ad autorizzare infrastrutture energetiche adeguate – un articolo della Reuters racconta i surreali ingorghi ferroviari di una desolata cittadina del North Dakota: in qualche modo il greggio deve arrivare nelle raffinerie del sud – stanno attraversando un momento petrolifero glorioso. Il blocco forte dell’Opec è in medio oriente, ma nel summit di Vienna i convitati di pietra sono North Dakota e Texas, protagonisti della rivoluzione dello shale. Se nel 1973 l’Opec controllava il 53 per cento del petrolio mondiale, oggi la percentuale è scesa al 42, contrazione dovuta innanzitutto al drastico aumento dell’estrazione americana. Un report di Goldman Sachs dice che “l’Opec si è resa conto che l’unità di misura del mercato oggi è il barile di shale americano, e questo non dovrebbe essere una sorpresa visto il modo in cui lo shale ha trasformato il mercato petrolifero globale”.

 

Il raduno dell’Opec non è il primo dopo la rivoluzione dello shale, ma è probabilmente la prima volta in cui i membri, messi sotto pressione dal calo del mercato, sono costretti ad ammettere che il mercato del greggio non è più nelle loro mani, ma in quelle degli Stati Uniti.

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