Jean-Claude Juncker e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Continente (quasi) perduto

Europa in cerca di stimoli. Oltre Juncker, idee renziane anti tasse

Marco Valerio Lo Prete

Per l’Ocse “è Berlino a dover fare riforme”. Per Perotti, economista e consigliere di governo, più spesa non è un toccasana.

Roma. Oggi è il gran giorno del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e del suo Piano di investimenti che, presentato nei dettagli al Parlamento europeo, sancirà una (simbolica) svolta della politica economica di Bruxelles. Ieri si parlava addirittura di un’espansione del Piano Juncker, che arriverebbe a mobilitare 350 miliardi di euro, ma sempre nell’arco di tre anni, e attingendo a soldi pubblici e privati. Insomma, anche nella migliore delle ipotesi non si tratta esattamente di un rompete-le-righe rispetto all’approccio rigorista e occhiuto sui conti pubblici, predominante finora in Europa, ma di una correzione di rotta sì. I più scettici insistono che il diavolo, come al solito, sarà nei dettagli. Ieri comunque il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, lasciandosi alle spalle le polemiche con il burocrate-in-chief, Juncker appunto, ha preferito enfatizzare tutto ciò che assomiglia al “cambiaverso” annunciato per Bruxelles dal Rottamatore: “Eppure si muove qualcosa in Europa”, ha detto ironizzando sulla citazione di Galileo Galilei nel giorno della visita di Papa Francesco a Strasburgo. Poi, mentre l’Ocse sosteneva la necessità di “profonde riforme strutturali, soprattutto nei paesi dell’Europa centrale”, nel senso di maggiori investimenti e liberalizzazioni in Germania per aiutare i paesi periferici, Renzi aggiungeva: “Il New Deal europeo continuerà oltre il 2014. Abbiamo fatto la nostra parte, ora siamo molto più liberi nella battaglia sulla flessibilità, non c’è più nessuno che ci dice di fare i compiti a casa”.

 

Più realisticamente, un Piano Juncker non farà primavera. Anche per questo il governo ieri registrava con soddisfazione l’approvazione alla Camera del Jobs Act, cioè di una riforma tutta italiana, senza nemmeno la necessità di apporre il voto di fiducia (con l’uscita al momento del voto di una trentina di deputati della minoranza di sinistra del Pd). Non solo: secondo uno studio appena pubblicato da uno dei più titolati consiglieri economici di Palazzo Chigi, il bocconiano Roberto Perotti, “più spesa pubblica” non equivale a “più benessere”; lo stimolo fiscale migliore, per un’economia a rischio “stagnazione secolare”, arriverebbe da un taglio di tasse.

 

[**Video_box_2**]Perotti, con il collega della Bocconi Tommaso Monacelli e l’economista francese Florin Bilbiie, ha appena pubblicato uno studio – per la serie curata dallo statunitense National Bureau of Economic Research – intitolato “Is Government Spending at the Zero Lower Bound Desirable?”, cui presto si affiancherà una ricerca gemella. La conclusione del consigliere di Palazzo Chigi, in versione semplificata per i non addetti ai lavori, è la seguente: in un’economia in cui i tassi d’interesse sono già a zero e le politiche convenzionali della Banca centrale non possono stimolare la ripresa, per creare benessere è meglio ridurre le tasse di un euro che aumentare la spesa pubblica di un euro.

 

[**Video_box_2**]Prim’ancora che un caveat per gli entusiasti del Piano Juncker, lo studio in questione è l’ennesimo colpo di scena nel lungo dibattito accademico sulla politica fiscale ai tempi della Grande recessione. O possibilmente della “stagnazione secolare” che ci attende, cioè una situazione con tassi d’interesse quasi a zero, investimenti comunque flosci e crescita fiacca. Studi accademici (come quelli di Lawrence Christiano) e vulgata mediatica (come quella di Krugman) vogliono che, in frangenti simili, accrescere la spesa pubblica sia quantomai efficace per rilanciare la crescita. L’effetto “moltiplicatore” sul pil è maggiore del solito: a certe condizioni, particolarmente negative, un euro in più di spesa pubblica potrebbe far aumentare il pil perfino di tre euro. Ora Perotti e Monacelli sostengono che i modelli utilizzati finora per calcolare il moltiplicatore della spesa pubblica hanno tenuto conto degli effetti sul pil, ma non di quelli sul “welfare” dei cittadini. Il pil potrà pure aumentare, “ma noi economisti non possiamo limitarci a questo, dobbiamo considerare gli effetti per il benessere sociale – dice al Foglio Monacelli, della Bocconi – La spesa pubblica, che oggi molta letteratura accademica ci dice essere estremamente conveniente in queste condizioni, non può comunque essere considerata un ‘pasto gratis’. Non foss’altro perché, banalmente, le tasse dovranno salire per coprire le spese, dunque il benessere sociale può calare”. Monacelli precisa al Foglio di ritenere “necessario uno stimolo fiscale per l’Eurozona, specie se coordinato con uno stimolo monetario importante”. Il punto però è più sottile: se si punta al benessere sociale, natura ed effetti di questo stimolo vanno pur sempre valutati. E per ora, secondo Perotti & co., uno sgravio di tasse è preferibile a un aumento di spesa. Seppur sostenuta da un apparato teorico più robusto, è una tesi assimilabile a quella degli economisti Alesina e Giavazzi, o dell’imprenditore Carlo De Benedetti, che giustificano uno sforamento dei parametri di Maastricht soltanto a fronte di un robusto taglio di tasse. Ecco qui, per Renzi, un’idea, se non alternativa al Piano Juncker, almeno scettica, complementare e radicale.