Matteo Renzi, Beppe Grillo e Matteo Salvini

Dolce analisi del voto

Salvatore Merlo

Due elezioni regionali, noiose e scombiccherate, danno la stura a nevrosi, faziosità, surrealismi funambolici con il conforto degli zero virgola. Per non parlare dell’astensione: uno spauracchio da 40 anni.

Roma. Matteo Renzi ha vinto le elezioni. No, le ha vinte l’altro Matteo, Salvini, che ha raddoppiato i voti della Lega. Anzi, le elezioni le ha vinte l’astensionismo, come già diceva Enzo Biagi all’incirca quarant’anni fa ogni volta che si andava a votare. Ma a ben pensarci pure Beppe Grillo, malgrado abbia dimezzato i voti, è andato alla grandissima: è arrivato tre in Emilia Romagna, un po’ come Alfano in Calabria. E che dire di Tabacci? Mica è sparito Bruno Tabacci. “Noi del centro democratico, con il nostro 3 per cento calabrese, siamo l’unica forza nazionale di area liberal-democratica e popolare in grado di raccogliere consensi significativi”. E insomma non sappiamo chi abbia inventato la massima finanziaria che dice: le azioni non si contano, si pesano; né sappiamo se sia davvero così. Ma in politica abbiamo imparato che la matematica è un’opinione, che i risultati numerici, nudi e crudi, non significano niente. Abbiamo imparato che delle elezioni locali, limitate, come quelle in Calabria e in Emilia, quel genere di elezioni che per gli italiani sono quasi malinconiche, quasi poetiche, percorse da una svogliatezza blasée da patto del Nazareno, da un languore di lago o lungomare, nel Palazzo possono invece scatenare analisi di geometria politica, giochi di destrezza in Transatlantico, tenebrose angosce nelle sale di partito, lampeggianti deliri nei giornali compenetrati, elaborate e contorte funzioni nel ceto parlamentare.

 

Dice Matteo Renzi, alludendo ovviamente a se stesso, segretario del partito che ha eletto sia il presidente dell’Emilia sia quello della Calabria, con l’aria di chi ammette che questo voto già nelle premesse non era proprio di grande richiamo per mancanza di avversari e di vero conflitto: “Guardate che un vincitore c’è”. Ma sentite cosa gli risponde Stefano Fassina, che pure lui è del Partito democratico, e dunque pure lui ha eletto sia il presidente dell’Emilia sia quello della Calabria: “Dobbiamo rilevare i risultati molto preoccupanti per il Pd”. Un balletto di maschere dove l’unica cosa sicura è che i conti non tornano, nemmeno dentro i partiti. Ecco per esempio Sebastiano Barbanti, deputato del Movimento cinque stelle, quasi in lacrime: “Mi sembra che, mentre la nostra barca affonda, Grillo stia continuando a cantare nella sala principale”. Ed ecco invece Giulia Gibertoni, che per il Movimento 5 stelle è arrivata terza nella corsa per diventare presidente dell’Emilia: “Vittoria”, esulta. “Con i nostri cinque consiglieri regionali abbiamo centrato l’obiettivo”. Fino a questo funambolico capolavoro di Manlio Di Stefano, qualsiasi cosa voglia dire: “In termini assoluti il M5s è l’unico ad aver incrementato i voti rispetto al 2010”. Ed è infatti sul significato da attribuire ai numeri che tutti si accapigliano e si arrovellano o fingono di arrovellarsi e accapigliarsi, mentre i giornali si comportano da termometri, segnalatori di incerte temperature e vaghi movimenti sotterranei, tenorili ingegneri del comportamento politico, come se davvero queste elezioni regionali – in due regioni – e ai tempi della grande coalizione vestita da patto del Nazareno, fossero una gara entusiasmante.

 

[**Video_box_2**]E ovviamente, come sempre accade dai tempi di Moro e di Berlinguer, di Craxi e di De Mita, tutti sono tremendamente preoccupati per la disaffezione, per l’astensionismo, per la politica che si allontana dai cittadini. Oggi lo ricordano, senza sbavature nell’imprevisto, sia Susanna Camusso (“le persone non si sentono rappresentate dalle politiche che vengono fatte”) sia Corrado Passera: “Non è la vittoria dell’astensione, è la sconfitta dei partiti” (ma tranquilli, presto arriva lui). E insomma la politica come chiamata alle armi, la politica a tutte le ore, la pervasività della politica, la retorica della politica, il tumore della politica. E così sulle povere e noiose elezioni di Calabria ed Emilia si scatena una prodigiosa logomacchina. Le percentuali, gli zerivirgola in più e in meno, sibilano in tutte le direzioni televisive, sociali e internettiane, oscurano la vista, provocano sbadigli e svenimenti. C’è Brunetta, con il suo Mattinale, un poderoso trattatello zeppo di numeri, grafici, ragionamenti: “La tentazione è cominciare con due formule consolatorie”, dice. “La prima è che Renzi si è sgonfiato. La seconda è: mal comune mezzo gaudio, ha vinto l’astensione, non il nostro avversario. Ma compiacerci di queste osservazioni sarebbe disonesto verso noi stessi e la nostra gente. Forza Italia è ai minimi”. Eppure Jole Santelli, sua compagna di partito, è contenta: “In Calabria siamo passati dal 19 per cento al 21 per cento. Considerato il momento, è un ottimo risultato”. Maschere che si avvicinano, si allontanano, piroettano, si confondono, si disperdono nel vasto salone postelettorale, mentre l’orchestra continua a suonare il vecchio, intrigante valzer “Dolce analisi del voto”.

 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.