Famiglia all’Ikea. Per venire incontro alla depressione del maschio, il grande magazzino ha allestito un reparto con maxischermi prima delle cucine

L'Ikea del nostro scontento

Michele Masneri

Guida ai piaceri e ai tormenti che ti assalgono tra un divano Klippan e le mensole Algot Fornelli a gas o piastra a induzione? Serve una commissione Grandi Rischi Cucine Storte. C’è anche una sindrome Ikea che assale nei grandi magazzini con troppa varietà e percorsi obbligati, spesso da Eataly a Roma.

Non ce la faccio. Posiamo qui tutto e andiamocene. Ho l’ansia. Sembra di essere all’Ikea”. C’è un momento preciso di passaggio nella vita di ogni abitante dell’occidente libero; è il momento in cui il grande magazzino svedese si trasfigura nella nostra immaginazione da festa del consumo colorato in luogo del panico oscuro. La sindrome Ikea prende con la maturità, coincide con il tragico momento dell’acquisto della prima casa, quando si smette di comprare candeline e rubare matitine di legno e si pensa alle cose serie: una cucina, che sia solida e duri nel tempo, e scorciatoie nel percorso obbligato dell’esposizione al primo piano, tra camerette con libri finti e veneziane a pareti con finestre cieche che guardano sul nulla, per scappare verso le casse, verso la vita.

 

La sindrome Ikea assale nei luoghi più disparati, spesso da Eataly a Roma (e i più chic: ma no, quello di Roma è da evitare, troppo grande, sembra – appunto – l’Ikea. Il migliore, quello di Torino; no, quello di Genova). La sindrome Ikea prende in grandi magazzini con troppa varietà e cubatura troppo ampia, e percorsi obbligati e la sensazione che le vie di fuga siano lontanissime, e che in caso di attacco di panico si dovranno percorrere almeno ottocento metri lineari tra divani Klippan, cassettiere Malm, tappeti Sillerup – oppure nel caso di Eataly, di selezioni di arabica e culatelli e lardi di Colonnata e mortadelle a chilometri zero; la sindrome Ikea è composta da una pars construens e da una pars destruens. La prima accoglie al piano superiore, dove il consumo è invogliato, accarezzato, suggerito: ambientazioni di casette nordiche con armadi in larice e betulla, e guardaroba Pax che trasformano il tuo pratico monolocale di 28 metri quadri in un sogno di razionalità scandinava. La pars destruens è quando dopo chilometri tra pentole di acciaio inox Önksvärd entri nel girone dantesco delle lampade dai design un po’ scopiazzati e plasticosi, col trionfo del led e del faretto e della multipresa; e poi nel reparto ufficio, con poltrone di finta pelle umana; e poi le piante – e davvero non si capisce perché uno dovrebbe comprare una pianta in un negozio di mobili svedesi – e poi l’antro del diavolo, il mega hangar finale dove l’estetica sberluccicante e democratica cessa, e la merce viene mostrata in tutta la sua essenza, con quegli scaffali alti come grattacieli e le povere merci smontate pezzo per pezzo. Poi le casse, lentissime, con cassiere che cercano il codice a barre col loro lettore tra le gambe di tavolini Nornäs o seggioloni Antilop e mensole Algot come corpi smembrati a cui si fanno inutili elettrocardiogrammi.

 

Ma il male di vivere alligna soprattutto nel reparto cucine. Scelta non scontata, anzi assai ponderata. L’amica architetta, molto intransigente su estetiche e pratiche: sì, il sotto sì, va bene. Il sopra però mai, mai all’Ikea; il top no, il top di rovere è un in-cu-bo, ti si macchia subito. Le persone di mondo per le loro case anche poracce scelgono infatti l’Ikea come in anni passati la copia delle Ore in edicola dentro il Sole 24 Ore. Dunque, mobili della immortale serie Metod, ma sopra un piano di multistrato fatto fare dal falegname, con effetto Bauhaus; fin qui però è facile. Gli atroci dilemmi sono altri: fornello a gas o vetroceramica? Qui, ognuno ha un’opinione: “A gas, a gas”, dicono i più tradizionalisti; “con la vetroceramica non puoi saltare la pasta”; “vetroceramica, assolutamente” dicono invece i moderni, sta allo sporco, non devi più passare lo strofinaccio per le caffettiere esondate.

 

Una volta accettata la sfida della modernità, ecco un altro atroce bivio: vetroceramica semplice o a “induzione”. La parola fa già paura nella sua severità, rimanda a Aristotele e Bacone e Hume, invece è il non plus ultra della tecnologia, secondo Wikipedia “il fornello a induzione è costituito da una bobina entro cui viene fatta scorrere una corrente elettrica alternata o comunque variabile nel tempo. La corrente che scorre nella bobina produce un campo magnetico variabile nel tempo al pari della corrente che lo genera. Per la legge di Faraday, una variazione del flusso del campo magnetico nel tempo produce una forza elettromotrice indotta. Questa forza elettromotrice dà luogo a correnti elettriche indotte, chiamate correnti parassite, che finiscono per circolare nel materiale dei recipienti disposti sul fornello e, per effetto Joule, dissipano energia sotto forma di calore provocando il riscaldamento”. Secondo Wikipedia, inoltre, “si tratta di fenomeni dissipativi che, similmente all’attrito in meccanica, dissipano energia sotto forma di calore”. Tutta questa tecnologia, tutta questa dissipazione, tutte queste correnti indotte, per cuocere un povero uovo o hamburger, genera incertezza, ansia. Ma poi un’altra amica, non sospettabile certo di luddismo, anzi che mi accompagna all’Ikea con la sua auto elettrica, che emette solo fruscii e non paga la Ztl: “Sei matto, l’induzione. Dovrai cambiare tutte le pentole”. Le correnti indotte e le dissipazioni distruggono infatti le padelle normali, in quanto troppo fragili. Ah. Allora mai. Cambiare tutte le pentole, mai – come se si possedesse un parco-pentole da chef stellati, e non dei tristi tegami la cui sostituzione, peraltro, sarebbe razionale.

 

Su un punto solo non si era disposti a compromessi, non si avevano incertezze: la lavastoviglie. Qui, storie tristi di tabù primari dell’infanzia. Mio padre, che un tempo faceva l’architetto, a quarant’anni – l’età in cui io mi accingo a comprare la cucina Ikea – ha sbroccato senza che nessuno abbia mai capito il motivo: è diventato un pericoloso e severissimo eco taliban, ha comprato questa cascina bombardata a mezz’ora dalla città, costringendoci a trasferirci dagli agi cittadini in questo lager ecologicamente corretto. Acquistato un piccolo podere, la mattina prendeva lezioni a domicilio dai villici, cui chiedeva di imparare la potatura delle vigne, gli innesti, il verderame. Si presentavano dunque questi figuri con le schiene compromesse da decenni di lavori nei campi, le facce verdi di zolfo. Lui li considerava dei puri abitanti dell’arcadia, perfetti pastori di una mitica età dell’oro. Loro sognavano un impiego alla Montedison o all’Italsider.

 

Generi alimentari proibiti: Coca-Cola; caramelle; chewing gum; patatine; merendine confezionate. Il latte si andava a prendere dal contadino, che aveva quattro vacche consunte nella parte vecchia del paese, e andavamo alle cinque, subito dopo la mungitura, la mamma e io, con un bricco di alluminio che tra qualche anno salterà fuori che è altamente cancerogeno. Questo latte aveva sempre una densità eccessiva, di materia vivente, e bisognava farlo bollire a lungo finché il vetrino non iniziava a tentennare, sennò sorgeva il rischio di una devastante colonia batterica.

 

[**Video_box_2**]In questi stessi anni di castigo, il rovello fondamentale dei miei genitori era se acquistare o meno una lavastoviglie. “In realtà consuma meno acqua”, mia madre. “Sì, ma inquina mari e fiumi”, mio padre. Come l’Italia del berlusconismo, questa discussione aveva bloccato qualunque cambiamento, e garantito rendite di posizione: si era continuato a discutere, e a lavare i piatti a mano. Ciò aveva generato altri traumi, però: quando andò in onda per la prima volta “Scuola di Polizia”, in prima serata, i miei mi costrinsero invece ad andare a seguire una lezione di ecologia domestica, tenuta da un professore torinese forse luminare nel campo, il cui focus era proprio sul lavaggio dei piatti ecocompatibile, e il primo comandamento era: lavaggio e risciacquo sempre della stessa esatta temperatura, evitando pericolosi choc termici, perché se lavavi col caldo e sciacquavi a freddo le particelle di detersivo sarebbero state inglobate nelle suppellettili (il giorno dopo tutti i miei compagni di scuola parlavano naturalmente di “Scuola di Polizia” e io pur padrone di nozioni imprescindibili di ecologia domestica avrei cominciato un lungo percorso di emarginazione).

 

Durante quella cognizione del dolore, l’unico spiraglio era rappresentato da una zia modella, che abitava a Milano in corso Magenta nello stesso palazzo della coppia Bertè-Borg, ed era sposata con uno zio fichissimo dirigente di Publitalia (che zeitgeist!); lei veniva apposta da Milano a Brescia, dove aveva aperto la prima sede in Lombardia del grande magazzino svedese. E lì, noi piccoli figli della Padania cattocomunista sognavamo i colori gialli e blu e il parco giochi Småland, dove gioiosi giocavano tra le palline piccoli figli di ceti medi meno riflessivi del nostro. Da allora per me l’Ikea è diventato un simbolo del capitalismo, seppur temperato da welfare state e democrazie nordeuropee.

 

Dunque, con la maturità, con l’acquisto della prima casa, ecco la certezza granitica. Le finestre nuove no, non ho i soldi. Le librerie, si riciclano quelle di casa vecchia. Però la lavastoviglie ci dev’essere, assolutamente, che sia la più moderna possibile. E dev’essere svedese. Tutta la casa dev’essere anzi costruita attorno alla lavastoviglie svedese. Ecco allora che nel grande magazzino svedese si era scelto un pratico modello Hjälpsam, da incasso, trecentoquarantanove euro il prezzo di un sogno (anche economico, equivalente a meno di sei sedute da un freudiano anche di media categoria, per rimuovere complessi). Che emozione dunque all’arrivo del camion Ikea, che avrebbe montato la cucina Metod con finitura Grevsta, e soprattutto la vetroceramica semplice non a induzione Daglig, e la lavastoviglie Hjälpsam.

 

Ma il male di vivere Ikea era in agguato: si era manifestato prima, al momento fatidico dell’ordinazione della cucina. Arrivati al primo piano, al banco progettazione, si era preso il numeretto, e arrivato finalmente il nostro turno, la solerte signorina in camicetta gialla aveva detto “non so se ce la facciamo a fare l’ordine entro oggi”; erano le 17, il negozio chiudeva alle 22, si era pensato a uno scherzo; si era invece stati ragguagliati che la progettazione di una cucina Ikea prende almeno un intero pomeriggio, si era capito che dietro l’immagine amichevole e fresca del grande magazzino svedese allignavano procedure e burocrazie come nella Romania di Ceausescu; si rifletteva ancora una volta sul rapporto tra democrazia avanzata e tasso di suicidi in Svezia.

 

Davanti ai monitor Dell si era assistiti da un’architetta del grande magazzino svedese (all’ufficio progettazione non sembra di stare all’Ikea, si sta su trespoli scomodi, con vetrate trasparenti, e aria viziata; fuori, le code; sembra di stare al bar di un aeroporto secondario, con un’atmosfera tesa da ebola in agguato). Una volta fatto il progetto, la signorina gentilissima aveva detto: “Vada pure a farsi un giro! Che forse ce la facciamo per le nove”, pensando di rassicurarci, mentre la sola idea di vagare per il centro commerciale per quattro ore generava ovviamente panico; si era usciti sul piazzale a fumare, veniva in mente la storia di qualche tempo fa del bambino dodicenne cinese scappato di casa, e rifugiatosi per sei giorni e sei notti all’Ikea di Shanghai, dormendo su letti Tarva e mangiando polpettine Köttbullar, e poi ritrovato grazie all’illuminazione del padre che si ricordava quanto il bambino adorasse il grande magazzino svedese.

 

Fuori, sul piazzale, splendevano i richiami dei non-luoghi del consumo: il grande magazzino degli sportivi Decathlon, il cinema multisala Uci; e tante persone che scendevano e salivano tapis roulant e scale mobili pullulanti, con comodini, fioriere, biciclette, carrozzine con bambini: insomma, la vita, o qualcosa di simile. La solerte signorina aveva richiamato proprio mentre si erano perse le speranze, quando si stava al secondo piano del meraviglioso Leroy Merlin, con un secondo piano dedicato al giardinaggio, con fontane vere zampillanti d’acqua e casotti per attrezzi di vero legno, e logge all’aperto da cui si vedeva Roma, all’orizzonte. Si era tornati nell’universo nordeuropeo e resinoso dell’Ikea, e qui si era compilato finalmente l’ordine. La lavastoviglie Hjälpsam sembrava finalmente a portata di mano.

 

Quando si stava per terminare la pratica, si veniva però messi in guardia dalla solerte signorina che – “contro il suo interesse!” non era il caso di richiedere anche il montaggio, perché era veramente una cosa da bambini, bastava montare le ante sugli elettrodomestici, e insomma, se lei vuole io glieli faccio spendere questi 200 euro, ma se fossi in lei lascerei perdere. Convinti, sfidati anche un po’ nella propria mascolinità, si era chiuso l’ordine escludendo il montaggio. Si scendeva verso il gate, anzi verso le casse.

 

Intanto, nel reparto cucine, si osservava l’umanità; ci si consolava della propria singletudine vedendo queste coppie molto giovani ed eterosessuali prendere il numeretto, e con sguardi molto neorealisti tutti molto simili. Le donne, ragazze prenestine o casiline con determinazione negli occhi, avevano grazie al grande magazzino svedese messo di fronte il compagno o marito al fatto compiuto: con diecimila euro a rate mettiamo su casa, non hai scelta, non importa che non hai un lavoro a tempo indeterminato, non hai vie di scampo. Gli uomini, invece, spesso già con pinguetudini da terza età, e sguardi da balene spiaggiate, e l’espressione da “che ci faccio qui”, perché l’Ikea è chiaramente un luogo non adatto al maschio eterosessuale. E’ un luogo per donne, per mamme e amiche, come la sala parto; eppure il maschio contemporaneo non ha scelta quando viene messo di fronte al terribile dilemma: mi accompagni all’Ikea? Assisti al parto?

 

Terrorizzato, schifato, de-sessualizzato, ma costretto dalla temperie politicamente corretta, il maschio va all’Ikea, partecipa alla scelta di piattaie Stenstorp, va in sala parto. Di fronte alla femmina indemoniata all’Ikea il maschio eterosessuale non può neanche volgersi altrove, non è come in quelle cene o feste dove vede altre femmine e può vagare con la mente – forse lei sarebbe più giusta, forse dovrei provare con un’altra; perché all’Ikea tutte le femmine sono uguali, con quello sguardo esaltato e ipercinetico. Mentre tutti i maschi hanno la faccia da sala parto, e l’idea di fuggire, scavallando la zona tessili, verso il mercato e verso l’uscita e poi verso il gate, non quello immaginario ma quello vero, verso Fiumicino, e aprire quel famoso chiringuito in Messico sempre vagheggiato.

 

Non a caso, per venire incontro alla depressione del maschio, il grande magazzino svedese, che non è stupido, è corso ultimamente ai ripari allestendo un reparto con maxischermi molto strategico proprio prima del reparto cucine. Lì, una zona di televisori giganti a 36, 42, anche 50 pollici, ipnotizza con musiche e immagini il maschio, che si distende su divani Klippan sognando bovinamente future partite con gli amici, mentre la femmina di là valuta la vetroceramica e l’induzione (e poi verrà ad annunciare, stravolta ma fiera: “E’ in acciaio! è laccata bianca, con top in faggio!”, come in altre occasioni “è maschio, pesa 3 chili, è sano!”).

 

Terminata la sociologia, ci si risveglia dal torpore, e la procedura Ikea impone di andare prima alla cassa, poi all’ufficio finanziamenti, per la povera pratica, approfittando di un Taeg zero. Lì, decine di domande, su redditi e familiari e ipoteche e 730 e 740. Poi un altro numeretto, per la fattura, e poi un’altra fila ancora per la spedizione senza montaggio. Di ritorno sul Grande raccordo anulare, ormai a tarda sera, dopo un intero pomeriggio al grande magazzino svedese, si è spossati ma felici. La lavastoviglie Hjälpsam è ormai nostra, almeno sulla carta. Ma non sarà così semplice.

 

L’amica architetta, ragguagliata, sbotta: ma come, sei matto! Non hai preso il montaggio. Come hai potuto. E subito si viene subissati da aneddoti dei più tragici: lo sanno tutti che solo i montatori Ikea le sanno montare le loro cucine; non hanno gli attacchi come le altre cucine; si scopre che ognuno ha in famiglia un aneddoto su una cucina storta Ikea; un’amica ha appena passato una tragica estate in Puglia facendosi montare la cucina presa all’Ikea di Bari da maestranze locali scelte in base a capitalismi di relazione e logiche di appartenenza mafiosa, e il risultato è che niente è in asse con niente, e la vacanza è rovinata. L’architetta: “Ho sentito il falegname: per montarla si prende 350 euro, ma non garantisce assolutamente il risultato”. E poi, soprattutto: “Non si prende la responsabilità”.

 

Sul “non si prende la responsabilità”, si crolla. Si decide di mettere da parte l’autostima e il coraggio, e ordinare il montaggio. Pensando basti una telefonata: si chiama il numero verde del grande magazzino (che verde non è, costa 50 centesimi al minuto, dunque una telefonata media costa come un set di pentole per induzione, mediamente); si scopre che la pratica non può essere riaperta al telefono, bisogna tornare al grande magazzino. Lì, altro numeretto, altra fila, altre coppie bovine, altri maschi disperati; si inserisce il montaggio. Poi, come in una commissione edilizia o Sovrintendenza, arriva un’altra impiegata: “Fermi tutti! Assolutamente serve l’approvazione del progetto!”, ci vuole insomma un timbro, e finalmente arriva il timbro di qualche commissione Grandi Rischi Cucine Storte, e arriva, ed è proprio come nei cartoni animati, c’è scritto: “Approvato”. La grande opera può avere luogo.

 

Si torna a casa, attendendo la telefonata che annuncerà il montaggio approvato. Il giorno fatale arriva: la cucina è dritta, l’acciaio inox delle ante Grevsta rifulge, e però dopo qualche secondo ci si accorge di qualcosa. La piastra a induzione è sbagliata rispetto al top; è più alta di un centimetro, e soprattutto la lavastoviglie non si chiude. Si richiama il numero non verde, parecchie volte, viene annunciato che effettivamente l’ordine è stato sbagliato, ma per la lavastoviglie non c’è niente da fare. Non si può chiudere, non è compatibile con le ante Grevsta. Chi si prenderà la responsabilità? La commissione Grandi Rischi Cucine Storte ne risponderà? Esiste un Tar dell’Ikea? C’è un giudice a Stoccolma?

 

Secondo un’amica molto cosmopolita, le cucine Ikea storte sono storte in realtà solo in Italia. Lei giura che alle Ikea americane e tedesche le cucine sono drittissime, e il sottotesto è che lì ci sono ancora maschi veri in grado di montarle, e prendersi la responsabilità, fregandosene dei rischi. Io non so cosa fare, se tenerla storta, oppure passare un altro pomeriggio all’Ikea. Non so se ce la faccio: in fondo vorrei solo tornare bambino: comprare candeline e rubare matitine, e giocare nello Småland; e pensare che avevo già comprato, con un compromesso tra sogni capitalistici e rimossi familiari, delle pastiglie ecologiche Coop comprensive di brillantante (non volevo prendermi il rischio di inquinare i fiumi). Ma la nemesi come al solito è sempre lì pronta. Crescere è impossibile in questo paese. Anche al grande magazzino svedese.

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