Vladimir Putin (foto Ap)

Ecco dove sbaglia l'occidente con la Russia

Massimo Boffa

Le sanzioni occidentali comunciano a mordere, ma la popolarità di Vladimir Putin in patria continua a essere altissima. Sergej Mikheev ci spiega perché.

Mosca. Viste da qui, le sanzioni occidentali cominciano a mordere. Contratti non firmati, affari bloccati, crediti alle banche sospesi e, intanto, il rublo che si svaluta, con effetti inflattivi sui prezzi. La popolarità di Vladimir Putin in patria continua a essere altissima (oltre l’80 per cento, secondo rilevazioni indipendenti), ma chi ha deciso di sanzionare la Russia conta sul fatto che, la situazione economica man mano deteriorandosi, quel consenso verrà meno e che magari qualcuno, tra le élite dirigenti, possa vedere di buon occhio l’uscita di scena del presidente. Siccome ho l’opportunità di conversare con Sergej Mikheev, uno dei giovani politologi oggi più in vista, ospite apprezzato nei più popolari talk show, può essere interessante far conoscere ai lettori del Foglio i suoi argomenti.

 

“Il rating di Putin – precisa subito Mikheev – non dipende solo dalla crisi ucraina, è sempre stato molto alto fin dall’inizio degli anni 2000. I russi sono grati al loro presidente per avere chiuso vittoriosamente la guerra in Cecenia, avere piegato lo strapotere degli oligarchi, ricostruito l’autorità dello stato, valorizzato le tradizioni culturali russe. Dopo Gorbaciov e Eltsin, leader deboli, i russi avevano bisogno di un leader forte. E’ la Russia che ha creato Putin, non viceversa. Proprio per questo, sulle sanzioni l’occidente sbaglia. E’ convinto che la Russia sia diventata una società consumista. E’ vero solo in parte: il russo medio è sensibile alla ragioni del portafogli, ma è capace di imprevedibili reazioni patriottiche quando l’interesse nazionale, come oggi, viene minacciato dall’esterno. La situazione economica peggiorerà, ma non sarà mai catastrofica come negli anni 90. I sacrifici verranno sopportati, Putin non cadrà, non ci sarà un Maidan russo. E sa perché? Perché la popolazione, più di ogni altra cosa, teme la rivoluzione, cioè il caos”. Resta il fatto che ritrovare i partner di ieri nella parte del “nemico” fa un penoso effetto sull’opinione pubblica russa. “I russi sono delusi dall’occidente. Negli anni 90 la fiducia nell’occidente era immensa, era il modello a cui tutti guardavano. I russi hanno distrutto l’Urss e si aspettavano maggiore riconoscenza. Invece l’occidente si è comportato come se avesse vinto la Guerra fredda, come se noi fossimo un paese sconfitto, i cui interessi nazionali non andavano tenuti in alcun conto”.

 

[**Video_box_2**]Ma finché nelle regioni del Donbass si continuerà a sparare, il conflitto tra la Russia e l’occidente non è destinato a rientrare. “Dopo l’annessione della Crimea, motivata dal timore che la Nato potesse impadronirsi delle basi sul mar Nero, la Russia non ha alcuna intenzione di annettersi il Donbass, non se lo potrebbe nemmeno permettere. La Russia vuole un’Ucraina neutrale con ampia autonomia per le province ribelli: su questa base è pronta a favorire ogni trattativa. Il problema è che oggi a Kiev (e a Washington) c’è chi vuole risolvere il problema con mezzi militari, cioè alimentare il conflitto. Anche gli americani in Ucraina stanno facendo il loro gioco e perseguono i loro interessi: il conflitto serve non solo a tenere la Russia sotto pressione, ma anche, agitando la ‘minaccia’ che verrebbe da Mosca, tenere legata a sé l’Europa che, altrimenti, potrebbe essere tentata da una maggiore indipendenza. Detto questo, Viktor Yanukovich non era un uomo del Cremlino e, se le nuove autorità ucraine si fossero comportate diversamente, dando rassicurazioni alla Russia sulle loro intenzioni amichevoli, questa crisi avrebbe potuto avere tutt’altro sviluppo”.

 

A fine conversazione, Mikheev vuole aggiungere un’annotazione personale. “Questa estate ho scoperto, venendo bloccato come persona non grata alla frontiera con la Finlandia, dove ero invitato a un convegno, di essere finito nelle liste dei sanzionati dall’Ue. Ci sono finito su richiesta della Lituania, che non aveva apprezzato un mio intervento a un convegno a Vilnius. Ora, io non sono un funzionario, non sono un oligarca, non sono un militare, vivo solo del mio lavoro intellettuale. Devo concluderne che la grande Europa mi discrimina sulla base delle mie idee?”.