Franco Cassano, sociologo del “pensiero meridiano”, consigliere di Vendola ai tempi delle prime primarie, è uno degli esponenti di punta della cosiddetta “école barisienne”

A sinistra nella panic room

Alessandra Sardoni

Cassano, che insegnò l’umiltà del male agli snob della gauche moraleggiante e ora insegna a diffidare di benecomunismo, diritti e altre bellurie ideologiche.

Non riesco ad abituarmi a messaggini come questo”, ammette Franco Cassano mostrando il cellulare. Lampeggiano tre parole: “Subito in aula”. Il gruppo parlamentare del Pd, cui appartiene per volontà di Bersani dal 2013, chiama a raccolta i deputati per le votazioni. Lo stile è perentorio, ma solo in nome della velocità, precisa. Come per dire che la sua non è la notazione scandalizzata di chi viene da un’altra generazione (è nato nel 1943), semmai il sospiro, appena affaticato, di un piccolo, convinto adattamento ai tempi.

 

La nostalgia è consapevolmente bandita, guai a lasciarne anche solo un’ombreggiatura, sarebbe in contraddizione con il nuovo saggio, “Senza il vento della storia”, che esorta la sinistra a tagliare cordoni ombelicali ed emozioni del caso, a dire addio al passato relativizzandolo a partire dalla divisione che ne è stata l’architrave quella tra destra e sinistra, tra capitalismo liberale e socialismo reale. A farsi volpe e non riccio. (Ogni riferimento alle connotazioni machiavelliane e fiorentine della volpe è escluso, vale Isaiah Berlin, punto).

 

Nel corridoio perpendicolare al Transatlantico, il sociologo del “pensiero meridiano”, consigliere di Nichi Vendola ai tempi lontanissimi delle prime primarie, più intellò che professorone – è uno degli esponenti di punta della cosiddetta école barisienne, sinistra intellettuale pugliese raccolta intorno agli editori Laterza – ragiona con il Foglio delle ottantotto pagine del suo pamphlet e dei loro destinatari. Da ricercarsi nelle varie anime della minoranza Pd (Cassano ha sostenuto Cuperlo alle primarie), nel sindacato attiguo, nei mondi accademici in guerra, da Marco Revelli a Stefano Rodotà, da Luciano Gallino a Carlo Galli, solo per fissare una geografia minima. Una parte di coloro che Renzi, con aspro e voluto sconfinamento lessicale ha chiamato “reduci” contro i nuovi, i suoi “pionieri”.

 

L’avevamo lasciato nel 2011, al crepuscolo del berlusconismo e del suo opposto, con il saggio “L’umiltà del male” pubblicato sempre da Laterza, dedicato alle élite azioniste genere Zagrebelsky-Eco, di cui condannava l’aristocratismo etico, il compiacimento moralistico, la “boria del bene” attraverso una rilettura provocatoria e affascinante della “Leggenda del Grande Inquisitore”, il cammeo dei Karamazov di Dostoevskij: l’idea della salvezza dei pochi, ma puri, contrapposta alla dannazione di irrecuperabili e meno pure moltitudini. Da allora ha passato quasi due anni in Parlamento, osservatore un tantino stupito dalle dinamiche delle correnti del Pd, con un unico scritto, un articolo per l’Unità ancora bersaniana tutto concentrato sui cambiamenti e il restringimento dell’elettorato classico della sinistra. 

 

“Il destinatario di oggi è lo stesso, ma non parlo solo agli stessi, voglio dire non solo a un milieu intellettuale”, spiega Cassano. “Sono un sociologo, parlo a tutti quelli che fanno una giusta battaglia per la difesa dei diritti, ma che dovrebbero riflettere di più su come fare a tenerli se le risorse non ci sono”. Sociologia politicamente sensibile vista la tensione sul Jobs Act. “Lo scontro di questi anni fra due blocchi, da un lato il no alle tasse accompagnato da spiriti animali, dall’altro la difesa dei diritti come questione di legalità e purezza, non ha prodotto nulla anzi ha creato depressione. La sinistra deve scoprire un rapporto positivo con le risorse”.

 

Matteo Renzi nel libro è nominato solo due volte, nelle note a piè di pagina che ricordano un suo scritto passato abbastanza inosservato, la prefazione alla riedizione di “Destra e Sinistra” di Norberto Bobbio pubblicata da Donzelli quando non era ancora presidente del Consiglio. (A Cassano interessa il passaggio sul carattere liquido della modernità, e l’irrequietezza delle dinamiche sociali contemporanee). Ma è inevitabile che il riferimento a “l’èra del cambiamento” contenuto nel sottotitolo, richiami la leadership tosta del rottamatore.

 

Il saggio di Cassano contiene prese di posizione forti che spolpano la sinistra delle sue certezze residue, ridimensionandone categorie ed emozioni. Privandola di ogni velleità o abbandono teleologico. “E’ necessario partire dal riconoscimento che l’egemonia della linea di divisione fra destra e sinistra e la sua supremazia sulle altre non sono garantite da nessuna provvidenza”. 

 

C’è del metodo nella spietatezza con cui Cassano sbarra le uscite di sicurezza della sinistra italiana dimostrandone una a una la fatiscenza. Fino a stringerla in una trappola logica. O in una panic room. Il punto cruciale è quello di cui sopra: non è più il tempo della difesa dei diritti a prescindere dalle risorse e non è più questo, europeo e occidentale, neppure lo spazio dove quel tipo di battaglia sia possibile. “La sinistra deve fare i conti con il fatto che diritti e risorse decrescono insieme. Deve porsi il problema di come puoi mantenere i diritti se non hai risorse e non riesci a stare nell’economia internazionale. Deve saper fare una proposta”, dice Cassano al Foglio “anche perché staccare i diritti dalla situazione significa renderli più fragili”. Non può essere questo la cittadella anche solo teorica della sinistra. “I trenta gloriosi” anni della costruzione del welfare come lo conosciamo sono finiti, la nostalgia è inutile così come la tentazione di “scomunicare il mondo che viene e sublimare una vecchia gioventù a danno di quelle successive”. Pericolante anche la via d’uscita dell’indignazione. Sterile “lo sdegno contro le accuse di conservatorismo… La sinistra ha paura del mondo che le si spalanca davanti”, si è ritratta in una posizione difensiva e nel sentimento consolatorio che la fa sentire “ospite innocente di un universo cattivo”, nella superiorità morale o nella presunzione che l’autore aveva già colpito nell’“umiltà del male”.

 

Il reset complessivo delle uscite di sicurezza non risparmia nulla, neppure la ridotta territoriale del benecomunismo. “I beni comuni sono il simbolo di una sovranità concreta che contrappone la gestione collettiva, la cura e il controllo diretti da parte della comunità alla delega e ai cieli dell’astrazione dove le élite politiche e quelle economiche dirottano ogni progetto a proprio esclusivo favore”. Ma obietta Cassano – ai Rodotà e ai Gallino, immaginiamo – “la diffidenza nei confronti dell’astrazione la si paga duramente. Se si guarda la proprietà comune dall’esterno e con gli occhi di altri contesti locali essa appare come una forma di proprietà privata che esclude tutti gli altri non solo i grandi interessi dalla fruizione del bene. Se l’acqua è un bene comune globale come può appartenere a quelle comunità nei cui terreni scorre copiosa?”. Se questi sono gli approdi il ragionamento parte da più lontano, dalla relativizzazione obbligata appunto della divisione classica destra/sinistra che “non è finita, ma ha perso la sua egemonia con la globalizzazione. Oggi ne esistono altre, il mondo è più piccolo di come l’avevamo pensato. Bisogna prendere atto in modo definitivo” osserva Cassano “che la storia è infedele agli appuntamenti”.

 

Qualcuno potrebbe ricordare che i postcomunisti si autoraccomandano da anni di considerare gli effetti della globalizzazione e il superamento del fordismo, almeno – tanto per mettere una data di questo secolo – dal congresso dei Ds di Pesaro del 2001 e che dunque se fosse tutto qui, non sarebbe nuovo. Ma la novità è nella conclusione del ragionamento: se è vera la premessa, la constatazione della fine sotto i colpi della storia, “l’indigenizzazione” delle culture politiche da una parte, la globalizzazione dall’altra, allora una sinistra che non rinunci alla sua prospettiva universalista – e secondo Cassano non deve – può scoprire altre pieghe e considerare, per esempio, che nell’èra del turbocapitalismo finanziario, delle sue distorsioni, eccessi e bolle, la percentuale della popolazione mondiale in condizioni di povertà è diminuita. La stessa premessa sbriciola anche l’altra dicotomia rifugio: capitalismo finanziario versus economia reale. “E’ impossibile non riconoscere che accanto alla faccia distruttiva e al cinismo che gli consente di precarizzare la vita di milioni di esseri umani, il capitale smuove energie e ha messo in movimento popoli e paesi a lungo ai margini del benessere occidentale”. La finanziarizzazione, aggiunge Cassano, “non sopprime l’economia reale, bensì la dis-loca”. La segnaletica dell’èra del cambiamento vieta il transito anche in direzione dei vari Occupy, dovunque non si capisca che la globalizzazione “non è stata solo un gioco a somma zero fra due giocatori, una semplice deviazione del capitalismo dalla sua vocazione produttiva verso i tavoli di Wall Street, ma un gioco a somma positiva nel quale grazie anche alla finanza sono intervenuti nuovi giocatori la cui ascesa in concorrenza e in conflitto con i vecchi ha contribuito a colpire e precarizzare chi pensava come garantite per sempre le conquiste degli anni precedenti”.

 

La torsione etica delle letture politiche dominanti a sinistra resta il filo che lega il nuovo pamphlet dal lessico politico-sociologico (popolo, rivoluzione passiva, egemonia, emancipazione…) maliziosamente d’antan, come ci confida l’autore, e il saggio precedente che poggiava sul potere conoscitivo della letteratura. E’ un appello anche e sempre di natura morale quello di Cassano a una parte politico-culturale che ritiene comunque la sua visione, quella sofferente nel mondo renziano, smarrita, ma anche rinchiusa nelle proprie certezze, spesso nei propri rancori o peggio ricordi giovanili. Esortazioni alla modestia, moniti contro la presunzione come quelli che consegna al Foglio “gettiamoci nel futuro”, “diamo una mano”, “nessuna generazione ha il monopolio della verità” conservano toni e bersagli: presunzioni, tic, narcisismi e abitudini e soprattutto elitismi.

 

[**Video_box_2**]“Sinistra vuol dire molti”, scrive già nel prologo Cassano addentrandosi nel gioco delle etimologie. Polis, città e polloi, molti, hanno la stessa radice, la politica è il luogo dei molti”. Non è una sottolineatura scontata in un campo che ha spesso praticato il “meglio perdere che perdersi”, la difesa identitaria anche a scapito del consenso. Consenso è stata spesso, nel ventennio dell’antiberlusconismo, una parola al confine tra sprezzatura e disprezzo. “Ma oggi il 40,8 per cento di Renzi è un fatto positivo che è impossibile non riconoscere e infatti ne tengono conto tutti anche chi non lo dice” ragiona Cassano sia nella lunga conversazione con noi a Montecitorio sia nell’epilogo del pamphlet intitolato non a caso “la costruzione del popolo”. La tesi è che il Pd deve ricostruire il blocco sociale allargandolo, che la leadership di Renzi lo sta facendo anche attraverso il rilancio (obamiano, berlusconiano poco importa) della speranza, ma che corre alcuni rischi: principalmente, è la tesi, “che l’allargamento dell’elettorato e della rappresentanza coincida con un semplice spostamento, a prezzo di una mutilazione”.

 

Sul finire del ciclo berlusconiano, Cassano invitava le élite azioniste a imparare dal Male, con la maiuscola in un’allusione al nemico dell’epoca, l’umiltà e la capacità di comprendere le debolezze degli altri. Oggi nell’èra del cambiamento, del renzismo arrembante esorta a imparare dal capitalismo la duttilità, la “straordinaria capacità di estendere verso il basso la meta del successo facendosi narrazione popolare”. Il capitalismo ha saputo fare questa operazione con i miti americani degli anni Trenta e poi negli anni Settanta e Ottanta “con i Tony Manero e i Rocky Balboa”, osserva Cassano, storie di successi individuali in grado di parlare a tutti. Lo sa fare oggi con le cronache e la retorica del garage, le vite parallele dei grandi imprenditori di successo alla Steve Jobs, “l’esercito dei piccoli winners dei mestieri più diversi”. Perché “la nostra singolare individualità è l’unica forza di cui disponiamo con certezza, l’unica carta che possiamo giocare in un mondo in continuo cambiamento e nel quale si allentano tutti i legami e, insieme ai rischi, si moltiplicano anche le opportunità”. In Italia, nella ricognizione dell’autore, “lo ha capito Berlusconi, il primo a promuovere l’idea del successo individuale, ma già con Grillo si è arrivati alla rottura di qualsiasi mito, all’appannarsi anche della forma individuale della speranza”. E anche questa comprensione fatta da sinistra dell’individualismo contemporaneo senza demonizzazioni, ma come opportunità, può essere bruciante per una parte dei destinatari. Ci tiene a sottolinearlo Cassano specie quando confessa la preoccupazione che il suo lavoro possa essere interpretato come un cappello da sinistra sul renzismo o – questo non lo dice – come un passaggio dalla minoranza sconfitta alle ragioni e alla nuova antropologia della maggioranza. Che qualcuno insomma nella difesa della finanziarizzazione da eterni manicheismi possa vedere il recupero dei Davide Serra e delle Leopolde.

 

E in questo senso forse lo aiuta la critica del filosofo Biagio De Giovanni un amico, legato al milieu dell’école barisienne dove il dibattito a colpi di articoli sul Corriere del Mezzogiorno è aperto: caro Franco, riabiliti il capitalismo anche turbo, ma al fondo lo consideri ancora tra i mali e i nemici. E in effetti il libro conserva l’aspetto di un’indagine sul nemico magari ex. “Gramsci ci insegna a considerare le sconfitte come superiorità dell’altro”, ricorda Cassano consigliando di riporre i vessilli europei del sol dell’avvenire perché il vento della storia se non cessato è comunque debolissimo. “Perché sforzarsi? Perché non accettare l’idea che la sinistra sia così avversa al rischio da non riuscire a leggere e interpretare un’èra di cambiamento?” dice al Foglio, dopo la lettura, Nicola Rossi, altro intellettuale pugliese già consigliere economico di D’Alema nei blairiani anni Novanta e che la sinistra l’ha lasciata da un po’. “Perché continuare in questa attività che, Franco Cassano a parte, oscilla spesso fra l’accanimento terapeutico e lo stalking? Perché non pensare che diversamente dagli uomini le culture politiche possono non essere per tutte le stagioni?”.

 

Deve aver deciso di correre il rischio stalking Cassano e anche quello di una sorta di anacronismo: l’èra del cambiamento sembra far sbiadire anche il genere letterario dell’autocritica e dei consigli accorati a sinistra. Ma chissà forse ricordando il frasario di Flaiano, la nota massima “non bisogna essere eccessivamente contemporanei”, ha scelto come incipit del pamphlet e memento per la sinistra, il bianco e nero del film “La Vita è meravigliosa” di Frank Capra: George chiede a Mary: “Quanti anni hai?”. “18”. “Diciotto?”. Risponde George: “Ma se l’anno scorso ne avevi diciassette!”. Osserva Cassano a pagina due: “Mary dà una risposta diversa da quella che aveva dato l’anno prima ma continua a dire la verità. E può dirla proprio perché non dà la stessa risposta”.

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