Roberto Maroni e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Matteo, c'è Bobo

Salvatore Merlo

Maroni a tavola con il Cav. soppesa il “leoncino” che agita viscere ma non fa politica.La Lega si muove in Lombardia: il governatore e Salvini si studiano.

Roma. Soffrono, gemono, si ficcano l’un l’altro i gomiti nei fianchi. E in privato Maroni, ricambiato, parla di Salvini masticandone e quasi mordendone il nome, come fa pure il vecchio Bossi: “E’ un leoncino nello zoo”. E dunque Maroni ha cenato ad Arcore, venerdì scorso, non accadeva da molto tempo, e tra un piatto di risotto e un hamburger il presidente della Lombardia ha confermato l’alleanza con Forza Italia, ha pure accettato l’idea di un rimpasto nel governo della regione, mentre Salvini ha assunto un atteggiamento di fastidio, a voler significare che tutto quell’apparato di diplomazie e di politica tra Maroni e Berlusconi, quella realtà concreta e delicata, non c’entrano niente con il suo convulso mondo di ribellismo e parole forti: “Il leader del centrodestra lo faccio io”, contro l’euro, contro i negher, contro Alfano “che si deve dimettere”, contro Renzi “di cui Berlusconi è diventato il tappetino”. E così adesso nella Lega il confronto è sommesso, caotico ma vivo. Un anno fa, quando c’era da scegliere il suo successore alla guida del partito, Maroni disegnò uno schema per evitare botti nel movimento ridotto ai minimi termini: Salvini a capo del partito, della macchina in panne, Flavio Tosi leader nazionale, proiettato a Roma, ai rapporti con gli alleati e con il centrodestra da ricomporre. Ma quello schema è ormai saltato. E Salvini, con la spavalderia del suo passo, è diventato per Maroni una presenza emotiva e ingombrante, che lo affascina e pure lo preoccupa assai. La cosa è apparsa chiara, l’altra sera, anche agli ospiti di Arcore. D’altra parte Maroni e Berlusconi maneggiano il baratto politico come una cosa ovvia, naturale e riposante, con familiarità di potenti. Dunque si capiscono. Così, al Cavaliere che gli chiedeva dettagli, forse pettegolezzi, a un certo punto Maroni ha confermato l’idea che entrambi si sono fatti del giovane Salvini e della sua tecnica “suggestiva ma primitiva”. A entrambi, infatti, il segretario della Lega lepenista sembra deciso a concentrarsi con felice miopia su ciò che è vicino, con il rischio di un bagno elettorale. “Se vuol far saltare le alleanze pecca d’ingenuità”, ha sibilato Maroni. E il Cavaliere: “E’ un demagogo di cui dobbiamo tener conto”.

 

Un anno fa Maroni pensava che Salvini potesse agitare e rimescolare un po’ di umori, vivificare il lievito svanito della Lega afflosciata dal declino di Bossi, dagli scandali di Belsito e del Trota, dai cerchi magici e sformati, e mai si sarebbe aspettato, a un anno di distanza, un risultato così ragguardevole nei sondaggi – Salvini ha sfondato la quota del 10 per cento – cui corrisponde tuttavia una linea politica in contraddizione con gli equilibri di potere che alla Lega ancora oggi consentono di governare le due regioni più ricche d’Italia, la Lombardia e il Veneto. Maroni è stato vicepremier, ministro del Lavoro, per due volte ministro dell’Interno, conosce dunque il peso della potenza, cui si accompagnano quella cautela e quel pragmatismo che nel tempo hanno trasformato per esempio Roberto Calderoli in un tessitore di riforme elettorali, ovvero quella cinica misura che secondo Maroni manca del tutto a Salvini, il segretario che si è messo alla testa di una marea grossa, una geografia gonfia, sì, ma potenzialmente emarginata, come dice anche Flavio Tosi, il sindaco leghista di Verona e avversario di Salvini: “Con la sola protesta non ci fai niente”.

 

[**Video_box_2**]E insomma Maroni, che ha appoggiato e benedetto l’ascesa di Salvini alla segreteria, dicono osservi con perplessità il “leoncino nello zoo”, mentre Salvini, il leoncino, mostra i denti, considera Maroni un residuo, “un vecchio” dagli atteggiamenti troppo accomodanti e ambigui. E dunque la Lega è un mare che si arruffa di creste candide, infido. Maroni non critica mai apertamente Salvini, né Salvini accusa Maroni. Eppure due settimane fa il capogruppo lombardo della lista Maroni in consiglio regionale, Stefano Bruno Galli, ha invitato Flavio Tosi, lui che Salvini invece lo critica e apertamente, a un incontro pubblico a Milano. E tanto è bastato a far venire a galla, d’improvviso, tutti i mugugni, i retropensieri, il ribollire di sospetti e malumori nei corridoi della Lega, un partito storicamente abituato agli scontri tribali. Ecco dunque il sillogismo: Maroni è amico di Tosi, Tosi è nemico di Salvini, dunque Maroni è nemico di Salvini. “Traditori”. Ed è una lotta ancora sommersa tra la Lega protestaria e la Lega di sistema, tra Maroni, che si muove con la leggerezza e il silenzio di animale prudente, e Salvini, a cui la furia disperata, più che la buona tecnica, sembra indispensabile alla vittoria. Per Maroni, Salvini tratteggia linee perfettamente dritte in un mondo di sfumature, tendente al tortuoso e all’obliquo. Maroni sa che la diplomazia è politica e che la politica è potere, dunque predica tutto quello che per Salvini è invece un fluire vischioso, un sostare, un agitarsi nel torpore. La partita è appena cominciata, e Berlusconi vi getta uno sguardo sospiroso. Maroni lo conosce e lo capisce, Salvini chissà.

 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.