Quello dei passaporti italiani è un business in Brasile, esistono agenzie private che ne sfornano quantità sospette. Pizzolato il suo l’ha ottenuto grazie alla carta d’identità del fratello morto

L'alter ego di Cesare Battisti

Angela Nocioni

Henrique Pizzolato offriva finanziamenti illeciti al Partito di Lula e Dilma in Brasile ed è rifugiato in Italia, che non lo vuole ridare indietro. A Rio dicono per vendetta.

C’è un gran caos in Brasile per un succulento caso Battisti alla rovescia. Ora che è l’Italia ad avere in casa un cittadino brasiliano che si dice perseguitato dai tribunali in patria e cerca di evitare la galera, laggiù litigano tra loro, destra contro sinistra, per ottenerne l’estradizione. E Cesare Battisti – quello vero – torna alla ribalta, suo malgrado. Proprio ora che era quasi riuscito a farsi dimenticare. Questo alter ego brasiliano, quattro anni dopo l’evitata estradizione per i quattro omicidi per i quali è condannato in Italia, proprio non gli ci voleva.

 

Stavolta gli anni di piombo non c’entrano e i Proletari per il comunismo neppure. Anzi, di proletario qui non c’è nemmeno l’ombra. Trattasi di paraculissimo ex manager di una grande banca pubblica, l’ex direttore marketing del Banco do Brasil, Henrique Pizzolato, condannato dal tribunale supremo di Brasilia per uno strano balletto di 33 milioni di dollari che servirono tra il 2003 e il 2005 a garantire al Partito dei lavoratori (Pt), il partito di Lula, i voti degli alleati in Parlamento. Reati imputatigli: corruzione, peculato e riciclaggio. Tutto fatto su richiesta del partito.

 

Uscito nottetempo dal suo attico sulla spiaggia di Copacabana in compagnia di un avvocato, tre valigie e una chiavetta usb zeppa di documenti – e con in tasca un passaporto italiano falso ritirato a nome del fratello morto nel 2008 in un incidente d’auto, ma con incollata la sua foto – Pizzolato ha attraversato in macchina il confine col Paraguay, poi è passato in Argentina, a Buenos Aires si è imbarcato su un aereo per Madrid e alla fine è arrivato in Italia. Quando la polizia federale è andata a cercarlo a casa, s’era già sistemato in Europa.

 

E’ stato arrestato il 5 febbraio a Maranello su richiesta dell’Interpol e rinchiuso nel carcere di Sant’Anna a Modena fino alla settimana scorsa, quando la Corte d’appello di Bologna ha negato la sua estradizione. Secondo i giudici bolognesi le galere brasiliane, per la gioia di Pizzolato, non garantiscono il rispetto dei diritti umani e quindi non è giusto rispedirlo indietro. Lui è finalmente libero, lo stato brasiliano ha 15 giorni per presentare ricorso in Cassazione e ha detto che lo farà.

 

Nel carcere di Papuda, a Brasilia, dove il manager in fuga avrebbe scontato la pena e dove ha soggiornato a lungo anche Battisti, prima di ottenere lo status migratorio di cittadino straniero con permesso di residenza permanente, da gennaio sono stati uccisi due detenuti. E’ stato questo l’argomento principale della difesa di Pizzolato, messa a punto sull’eco del vecchio mantra di Battisti all’epoca del suo processo: se mi mandate in galera in Italia mi uccideranno.

 

Gli amici del Pt festeggiano la sentenza di Bologna: “Viva l’imparzialità della giustizia italiana”. I nemici accusano: “Non ce lo ridanno per colpa vostra, perché Lula non gli ha dato indietro Cesare Battisti”. Gli amici di Battisti si preoccupano: “Ciascun processo di estradizione è una storia a sé, lasciate in pace Cesare”. Amnesty International locale, che di Battisti è una supporter fedele, ripete accorata: “Non siamo in guerra, non si tratta di uno scambio di ostaggi”.

 

Leonardo Souza, editorialista della Folha de Sao Paulo, dà una pista alla polizia: “Per fuggire in Italia Pizzolato s’è procurato una serie di documenti. Carta d’identità, codice fiscale, passaporto e certificato elettorale falsi”. In Brasile è possibile ritirare il documento per conto di un’altra persona. Una informatizzazione non perfetta avrebbe consentito a Henrique Pizzolato di ritirare la carta d’identità del fratello morto. E con quella, chissà aiutato da chi, il passaporto italiano. Da morto, Celso Pizzolato aveva anche un conto in banca e pagava regolarmente le tasse. Souza suggerisce agli inquirenti la vecchia strada: “Follow the money”.

 

Il doppio passaporto, anche se falso, per Henrique Pizzolato è stato una salvezza. Dall’aula Bachelet del tribunale di Bologna è stato per lui più facile difendersi. Il suo avvocato, Alessandro Sivelli, ha sbandierato informazioni sulle violazioni dei diritti umani nelle carceri brasiliane e i due omicidi di detenuti in cella hanno fatto il resto.

 

[**Video_box_2**]Anni fa a un altro miracolato dalla doppia cittadinanza (quello dei passaporti italiani in Brasile è un business, esistono agenzie private che ne sfornano quantità sospette) il giochetto era quasi riuscito. Salvatore Cacciola, brasiliano con cittadinanza italiana, condannato nel 2005 da un tribunale brasiliano a 13 anni per il crac della banca Marka, riuscì a scappare e a vivere a Roma per qualche anno grazie al doppio passaporto. Venne arrestato nel 2008 e poi estradato in Brasile, solo perché non seppe resistere all’idea di una vacanza a Monte Carlo e li trovò l’Interpol ad aspettarlo.

 

Pizzolato, più accorto, s’era rifugiato a Maranello e viveva molto discretamente, attento a non dare nell’occhio, ma l’hanno scovato lo stesso. Era l’unico, degli undici nomi di spicco condannati l’anno scorso nel processo del mensalão, a non essersi consegnato alla polizia. “Ho deciso di far valere il mio legittimo diritto di libertà per essere sottoposto a un nuovo giudizio in Italia, in un tribunale che non è sottoposto alle imposizioni dei media controllati dall’imprenditoria, come è previsto nel trattato di estradizione tra Brasile e Italia”, aveva scritto in una lettera prima di scappare.

 

Il mensalão è una storia giudiziaria a puntate, seguita in tv da tutto il paese come si segue in Brasile la telenovela della sera. Il tribunale supremo non ha usato la mano leggera un anno fa, quando ha spedito in galera la maggior parte degli imputati, e poi a marzo ha confermato la scelta, esaltando, con il respingimento dei ricorsi, la decisione di infliggere pene esemplari.
Dopo aver tenuto 69 sessioni sul caso, il tribunale supremo ha chiuso il dossier con 24 condanne. Carcere per undici alti dirigenti del Pt. Nessuno di loro risulta giudicato per essersi arricchito personalmente, ma per aver, ciascuno a suo modo, gestito la macchina della corruzione che ha garantito al Pt durante il primo periodo del primo mandato di Lula (il governo Lula inizia nel 2003, lo scandalo scoppia nel 2005) il sostegno necessario per assicurasi maggioranze sicure nella Camera dei deputati. I voti di alcuni deputati alleati erano retribuiti con un fisso mensile, il “mensalão” appunto. E’ stata passata a giudizio l’intera cupola del Pt, quasi tutti quelli che contano tranne Lula e Dilma.

 

Dall’ex tesoriere Delúbio Soares, all’ex segretario José Genoino (in semilibertà da agosto). Spedito in galera addirittura il creatore politico di Lula, José Dirceu, l’uomo che mise la cravatta al sindacalista Lula fino a portarlo nel 2003 alla presidenza della Repubblica. Il processo ha sfiorato Lula senza colpirlo. Una selva di “Compagni G” l’ha salvato. I tanti dirigenti di medio e alto livello del Pt finiti coinvolti nello scandalo hanno fatto scudo, si sono immolati e l’ex presidente ha potuto ogni volta dire: “Io non sapevo”. Ha visto i suoi uomini fatti fuori uno a uno, senza cadere mai nella tentazione di muovere un dito per salvarli. L’avesse fatto, avrebbe corso un rischio politico personale enorme perché l’obiettivo da far fuori era lui. Anche a sentenza emessa e a ricorsi esaminati, ora che è passato tempo, l’iter giudiziario è definitivamente concluso e la sua erede politica è stata rieletta presidente del Brasile, Lula ha mantenuto un profilo bassissimo.

 

Il giudice Barbosa, assurto al ruolo di supergiustiziere, è stato di una severità inedita per la storia brasiliana. La sua requisitoria è diventata presto un classico per i suoi toni implacabili.

 

Il clima creato attorno al ruolo di angelo vendicatore del giudice nero scagliatosi contro i potenti corrotti spiega molto del Brasile attuale. Le pagine processuali, ricche di frasi a effetto e colpi di teatro, basterebbero da sole a raccontare non soltanto la storia degli ostacoli tuttora sulla strada della sinistra lulista al potere, ma anche i metodi non sempre ortodossi scelti dal Pt per rimuoverli e soprattutto i reali rapporti tra bianchi e neri nel Brasile multirazziale e delle tanto celebrate quote nere nelle assemblee elettive.

 

La relazione personale tra il dirigente rivoluzionario bianco Dirceu e il giudice nero Barbosa, una trama di odio-amore-rancore da romanzo psicologico, è una Polaroid delle contraddizioni sociali in cui tuttora si contorce il Brasile.

 

Era stato Dirceu, nel 2003 a convincere l’allora neo presidente Lula che sarebbe stata una grande mossa di immagine nominare un giudice nero. A tutti gli effetti Dirceu ha raccomandato Barbosa a Lula, ha sudato sette camicie per persuadere Lula della bontà dell’occasione da non perdere.

 

Fatalità, o chissà cos’altro, è stato Barbosa, dieci anni dopo, a sbracciarsi nell’Alta Corte per ottenere la condanna di Dirceu. Sua la requisitoria fondamentale per ottenere il voto necessario a spedire in galera il suo ex protettore. E’ stato Barbosa, eletto presidente del tribunale supremo, a istruire il processo. Lui a tuonare, nell’ormai famoso crescendo retorico con cui ha concluso il suo atto di accusa: “Per andare in carcere in Brasile è necessario essere molto poveri o non potersi permettere un avvocato costoso. Il sistema attuale compie una selezione quasi di casta”. Ed è stato lui, quando Dirceu ha chiesto i benefici di legge per poter tra poco uscire di giorno di cella per andare a lavorare, a presentare un personale ricorso per impedirglielo. Dirceu, alla fine, ha rivendicato lo scopo politico degli atti contestatigli come illegali ed è entrato in cella con il pugno alzato gridando: “La sinistra può sbagliare, ma non fugge”.

 

Pizzolato, zitto zitto e coi pugni stretti in tasca, ha molto più pragmaticamente scelto di svignarsela. Come dargli torto. Appena liberato, a Bologna ha detto: “Non sono fuggito, ho salvato la mia vita”.