Rosaria Capacchione e Roberto Saviano (foto LaPresse)

L'importanza di chiamarsi Capacchione (Rosaria versus Roberto Saviano)

Marianna Rizzini

Rosaria Capacchione, giornalista napoletana di cronaca giudiziaria con lunga e onorata carriera, più volte minacciata di morte dalla camorra e ora anche senatrice del Pd e spiega con lettera sul Messaggero a un indignato Roberto Saviano: "L’avvocato poteva benissimo far minacce senza ordine dei boss".

Roma. Nome e fisiognomica, già quelli dicono qualcosa: lei, Rosaria Capacchione, giornalista napoletana di cronaca giudiziaria con lunga e onorata carriera, più volte minacciata di morte dalla camorra e ora anche senatrice del Pd, appare nell’aula di giustizia o in quella del Senato con tutta la solidità stralunata che il nome Rosaria, quanto di meno fantasioso esista in zona Napoli, e il cognome Capacchione, quanto di più onomatopeico esista in zona Caserta, possano suggerire. Rosaria è serafica anche quando spiega con lettera sul Messaggero a un indignato Roberto Saviano, l’altro protagonista di questa storia, giornalista dalla posa pensosa e dal cognome che scivola via liscio e aereo (Sa-via-no: di Napoli come Capacchione, ma il suono fa la differenza) che “è giusta” la sentenza di cinque giorni fa con cui, nel processo per minacce camorriste a loro, due giornalisti, è stato condannato il “colletto bianco” Michele Santonastaso e non i due boss Francesco Bidognetti e Antonio Iovine. “L’avvocato poteva benissimo far minacce senza ordine dei boss. E’ la nuova borghesia mafiosa che spesso non riconosciamo”, ha scritto Capacchione sul Messaggero, dicendo praticamente il contrario di quanto Saviano, per tre giorni, ha detto su Twitter o in tv (poi pare abbia ripreso l’aereo per l’amata New York: “Via, vieni via di qui, niente più ti lega a questi luoghi”, ha scritto). Lei, Rosaria, ha il viso saggio, il physique solido e le magliettone rigate da maga allegra delle favole; l’andatura sorridente di chi non ha fretta, l’accento campano non mascherato, la pettinatura semplice alla come viene viene. Rosaria è ancorata in tutto e per tutto a un territorio che conosce bene: “Quell’avvocato io l’ho visto in giro da quando ero ragazzina, andava a scuola con me, sapevo chi frequentasse, e infatti non mi sono mai fidata di quello che mi diceva quando voleva accreditarsi come ‘fonte’”, dice Capacchione al Foglio anche per spiegare, come ha già fatto in un ampio pezzo su Nazione Indiana, il potere dei “borghesi della mafia”, quelli senza “coppola e lupara”.

 

Non è poi così impossibile come pare a Saviano, dice, alla luce della sentenza (“e a differenza sua io ero in aula a quasi tutte le udienze”) che l’avvocato Santonastaso abbia agito con minacce “senza ordine dei boss”, i quali, all’epoca dei fatti, “erano al 41 bis”. E al 41 bis, dice Capacchione, senza figure come Santonastaso non si può sopravvivere come “potere” al di fuori del carcere. Non solo Santonastaso poteva essere “libero di minacciare iniziative contro cronisti o scrittori che disturbavano le operazioni”, dice, ma aveva fatto capire molto bene a Capacchione le sue intenzioni (“cosa ti aspettavi, dopo quello che hai fatto?”, le aveva detto un giorno, e lei per la prima volta in vita sua aveva avuto “davvero paura”). E così Rosaria, due giorni fa, non ha condiviso la delusione post-sentenza dello scrittore corrucciato Saviano, cupo in volto ma all’inizio dubbioso (nei minuti successivi al verdetto era apparso quasi sollevato, comunque contento a metà – poi ha preso piede la diffidenza). Oltremodo offeso, Saviano non l’ha digerita, la sentenza, ché, per lui, a prescindere dal processo, par di capire, i boss sono i “mandanti” punto e basta: se viene condannato soltanto l’avvocato qualcosa non quadra e, così ha detto a “Ballarò”, magari vuol dire che la lotta alle mafie “non è una priorità” del governo. Tanto vale tornarsene di nuovo in America, stufo (di nuovo) dell’Italia, e dire in tv che lui proprio non ci riesce, a darsi pace: “Com’è possibile che un avvocato possa essere considerato slegato dai suoi clienti?”.

 

[**Video_box_2**]Fatto sta che molti colleghi giornalisti, dice Capacchione, “l’hanno pure seguito” lì per lì, per forza d’inerzia nell’indignazione, salvo poi “pentirsi su Facebook”. Saviano è pur sempre Saviano, assurto via “Gomorra” alla high society dei cronisti impegnati, enfant prodige che ha in odio la sua vita reclusa (causa minacce), volto ormai di casa nel salotto di Fabio Fazio, giovane promessa per il gruppo Espresso, che tre anni fa lo incoronava, con tanto di copertina, futuro leader del centrosinistra, Papa straniero. E dunque c’è il processo, c’è la sentenza, ma c’è pure quella che Capacchione chiama la “percezione del colpevole”, quella “resistenza psicologica a considerare colpevole l’uomo della zona grigia”, il “colletto bianco” che assomiglia inopinatamente a te perché ha fatto la tua stessa scuola, ha frequentato i tuoi stessi luoghi, ti saluta quando ti incontra e, nel caso di un giornalista, pretende di raccontarti chissà quali segreti e tu quasi quasi ci caschi. E sta in queste parole – “resistenza psicologica” – l’importanza di chiamarsi Rosaria Capacchione.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.