Matteo Orfini (foto LaPresse)

The New D'Alema

Jobs Act, regioni e partito. Così Orfini si è preso zitto zitto un pezzo grosso di Pd

Claudio Cerasa

La triangolazione con Renzi, la vittoria sulla minoranza, il peso in Parlamento e il senso di un’altra profonda sintonia. Nomine e passaggi in direzione.

Roma. Matteo Orfini, proprio come Silvio Berlusconi, ha capito che per la sua parte politica non è possibile costruire un pezzo di futuro senza farlo, almeno per il momento, con chi quel futuro oggi lo interpreta meglio di chiunque altro ovvero Matteo Renzi. La parte politica rappresentata da Orfini (la sinistra del Pd) si trova culturalmente distante anni luce dall’universo che gravita attorno al patto del Nazareno, ma per questioni tattiche e insieme politiche il capo dei giovani turchi oggi è diventato uno degli azionisti di maggioranza del governo Renzi.

 

Mentre gli altri protestano, le minoranze si dividono e gli anti renziani minacciano scissioni per sperare di trovare spazio nei giornali in quota nannimorettismo (“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”). Mentre succede tutto questo, il presidente Pd (ex braccio destro di D’Alema) cresce e incassa. Incassa sul Jobs Act, con la minoranza della minoranza del Partito democratico (il Pd è un partito bellissimo) che si ritrova a considerare una propria vittoria l’aver “costretto” Renzi a inserire nella delega sul lavoro il testo dell’ordine del giorno votato in direzione dal Pd (e sul quale Orfini riuscì a ottenere un successo politico convincendo Renzi a alleggerire la riforma sui licenziamenti disciplinari). Guadagna sempre più peso in Parlamento, dove le sue truppe oggi sono numericamente ai livelli di Ncd (55 parlamentari, altri dieci in avvicinamento, quattro in meno di Ncd, che però in Senato pesa di più). E accetta sì di mettere il suo mandato a disposizione del segretario (ogni volta che si apre una faglia c’è un’intervista di Orfini pronto a spiegare come la direzione del segretario sia l’unica possibile, oltre che molto di sinistra) ma in cambio ottiene molto (i turchi sono anche nelle società partecipate). E ottiene soprattutto di fare, nel silenzio, quello che, nella caciara, avrebbero voluto ottenere D’Alema (e Bersani): lasciare a Renzi il governo, prendersi per quanto possibile il partito. Oggi Orfini lo fa con i segretari regionali e i presidenti di regione (Umbria, Toscana, ora si punta alla Calabria), domani magari con qualcosa di più. I vecchi amici di Orfini gli danno di venduto, “sei schiavo di Renzi!”, ma se D’Alema avesse la lucidità politica del D’Alema d’antan dovrebbe mettersi gli occhiali e riconoscere che il compagno Orfini è diventato, diciamo, l’erede naturale del vecchio Max.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.