L'economista Pascal Salin

Antiliberisti dei miei stivali

Luciano Capone

La vittoria del positivismo ottocentesco, il tic dei cittadini assistiti e quel fronte unico che in nome della lotta al liberismo unisce Le Pen, Hollande e perfino Valls. Parla al Foglio l’economista antifiscale Salin.

Di liberismo ce n’è meno dove ce n’è più bisogno, ma la cosa paradossale è che proprio dove è assente viene accusato di essere l’origine di ogni male”, dice al Foglio Pascal Salin, economista classe 1939 e panda liberale in terra di Francia. Destra e sinistra hanno idee e progetti più o meno diversi per affrontare la crisi economica, ma sembrano essere d’accordo sulle cause: è colpa del liberismo.

 

Nei giorni scorsi, su queste colonne, riprendevamo il surreale dibattito politico francese, quello di uno stato con una pressione fiscale vicina al 50 per cento sul pil e una spesa pubblica che supera il 55 per cento, in cui destra e sinistra si accusano vicendevolmente di essere “liberisti” e “ultraliberisti”. Una situazione che somiglia molto a quella italiana. Nel nostro paese l’economia è soffocata dalle tasse, schiacciata da un debito pubblico che viaggia spedito verso il 140 per cento sul pil e ostacolata dalle fitte maglie di barriere, autorizzazioni e burocrazia, dove però partiti, intellettuali e media si scagliano contro “questi 20 anni di liberismo”, che a seconda dell’interlocutore può diventare “neoliberismo”, “turboliberismo” o essere declinato nelle varianti “selvaggio” e “sfrenato”. A cui si è aggiunta la variante “virale”, visto che ieri la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha dichiarato che anche l’epidemia di ebola è conseguenza di “tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni”.

 

[**Video_box_2**]Salin, professore emerito all’Université de Paris IX Dauphine, è in tour in Italia per presentare il suo ultimo libro, “Liberiamoci!” (Liberilibri), e invita ad ascoltare le dichiarazioni dei leader francesi: “Sia Marine Le Pen sia alcune frange del Partito socialista accusano François Hollande di essere un ultralibéral. Avete capito bene, parlano in realtà di un presidente che non ha fatto altro che allargare la presenza dello stato nella società francese. Ormai la divisione non è tra destra e sinistra, ma tra socialisti di destra e socialisti di sinistra”. In realtà, più che a Hollande, le accuse sono rivolte al primo ministro Manuel Valls: “Valls ha una retorica diversa dai vecchi dirigenti della sinistra, ha messo anche in discussione il nome del Partito socialista, ma non le politiche, che sono in piena continuità con quello che abbiamo sempre visto”. Il totem delle 35 ore settimanali di lavoro, per esempio, resterà lì. “L’idea è che esiste sempre un problema di domanda e che deve essere lo stato a stimolarla”, dice Salin. Qualcosa di diverso però s’è sentito circa un anno fa, quando il presidente Hollande, quasi parafrasando il campione dell’economia classica a cavallo tra Sette e Ottocento, Jean-Baptiste Say, disse: “Dobbiamo agire sull’offerta. Questo non è in contraddizione con la domanda. L’offerta in realtà crea la domanda”. “E’ probabile che Hollande non sapesse cosa diceva – dice Salin – o che non l’abbia capito, perché non ha fatto nulla di tutto ciò”. Non si salva neppure “Sarkò l’Américain”, il presidente che doveva fare la rivoluzione liberale e ora si ripropone di entrare all’Eliseo: “Sarkozy rientra nella categoria di quelli che pensano che sia la spesa pubblica il motore dell’economia”, dice Salin, e a sostegno della sua tesi ricorda un aneddoto: “Quando era presidente propose di spendere decine di miliardi per fare investimenti pubblici e una volta presi in prestito i soldi chiese ai suoi consiglieri: ‘E adesso come li spendiamo?'".

 

La responsabilità non può essere solo della classe politica, la questione è capire come mai nei paesi in cui è grande e dannosa la presenza dello stato non ci sia una reazione da parte della società. “Dove la presenza dello stato è forte, le persone sono abituate a chiedere interventi pubblici per risolvere i problemi. Si entra in un circolo vizioso, si chiede allo stato di rimediare ai disagi che crea”. E gli intellettuali, il mondo della cultura? “In un paese in cui l’università è tutta nelle mani dello stato non c’è molta libertà. Io stesso, quando sono stato indicato a capo di una commissione che doveva selezionare i docenti di Economia, sono stato oggetto di una violenta campagna in quanto ‘ultra-liberale’”. La Francia di oggi è una terra ostile al liberalismo, eppure ha alle spalle una gloriosa tradizione: Say, Constant, Bastiat, Tocqueville, Montesquieu. Che fine ha fatto? “Quella tradizione non è più viva. E’ scomparsa, forse a causa dell’affermazione del positivismo ottocentesco, la cultura che ha avuto i suoi maestri in Comte e Saint-Simon e che pensava di guidare e trasformare la società gerarchicamente, dall’alto, una filosofia che si sposava alla perfezione con il centralismo dello stato francese. Scherzando, Hayek diceva che quando la Francia sarà un paese liberale, vorrà dire che già lo saranno stati tutti gli altri”. Prima che sulla politica, bisogna agire a livello culturale e qualcosa sta cambiando, conclude Salin: “Con la rivoluzione tecnologica e internet stanno nascendo riviste, giornali e think tank liberali che non avrebbero mai trovato spazio prima. ‘Liberalismo’ è una parola usurata, ma ce n’è ancora bisogno”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali