Il combattente belga Jejoen Bontinck e suo padre Dimitri, che è andato a riprenderselo in Siria.

I pentiti di al Baghdadi

Daniele Raineri

Spulciando le testimonianze del processo per terrorismo in corso in Belgio si scopre come funziona il califfato, come cambia e perché di altri pentiti ce ne saranno pochi.

La prima settimana di ottobre, è cominciato ad Anversa un processo contro 46 cittadini belgi membri di un gruppo islamista chiamato Sharia4Belgium, che si è sciolto nel 2012. Gli uomini sono accusati di essere andati negli anni scorsi in Siria ad arruolarsi nello Stato islamico, il gruppo armato estremo che conta decine di migliaia di combattenti e sta facendo una guerra di espansione su più fronti in Iraq e in Siria. In alcuni casi questo processo per terrorismo in Belgio si basa sulle testimonianze di alcuni imputati che sono tornati e si sono pentiti. Le loro sono le prime voci a raccontare com’è lo Stato islamico visto da dentro e a descrivere il grande flusso verso la Siria dei muhajirin, che è una parola araba per indicare coloro che fanno la hijra, ovvero la migrazione, in questo caso con lo scopo di fare la guerra. Una parte delle informazioni di questo articolo arriva da un giornalista che lavora per il quotidiano belga Het Laatste Nieuws e ha passato al Foglio un fascicolo con le deposizioni degli imputati.

 

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Hakim Eloussaki ha compiuto 22 anni il mese scorso ed è il fratello minore di Houssein, capo di Sharia4Belgium (modellato sul gruppo inglese Sharia4UK, ormai sciolto pure quello. Houssien è morto in combattimento). E’ andato in Siria alla fine del 2012 per seguire il fratello, è tornato pochi mesi dopo, a marzo 2013, perché è stato ferito alla testa da una granata. Al ritorno è stato ricoverato in un ospedale del Belgio, ad aprile è stato arrestato e la polizia gli ha fatto sentire una telefonata intercettata in cui parla con la sua ragazza. “Sai che c’è – dice lui – oggi ho ucciso un uomo. Era un infedele che era stato catturato da un bel po’. La sua famiglia aveva raccolto soltanto trentamila euro per lui, e invece il prezzo stabilito era di settantamila. L’ho ucciso con un colpo alla testa. Bang! Volevo fare il video, ma la mia camera era messa male e il video non è venuto”.

 

Durante gli interrogatori Hakim ha negato di avere ucciso qualcuno, ha detto che voleva soltanto impressionare la sua ragazza e ha insistito fino a settembre, quando ha confessato alla polizia che l’ha fatto, per paura. Se non avesse ucciso il prigioniero e avesse ignorato gli ordini del suo comandante avrebbe firmato la sua condanna a morte.

 

Per la procura si è trattato di una sorpresa positiva. La collaborazione degli imputati è rara e gli inquirenti stanno facendo affidamento soprattutto sulle intercettazioni telefoniche e su alcuni video di pessima qualità girati in Siria, roba fatta in fretta con i telefonini, per provare davanti al giudice le accuse contro i muhajirin belgi. Cose del tipo: “Non ho mai imbracciato un fucile quando ero in Siria”, e invece poi spunta un video con un kalashnikov. Gli omicidi sono stati separati dagli altri reati, per essere l’oggetto di altre indagini e di un altro processo che comincerà più tardi.

 

Questa di Hakim è una situazione, una soltanto tra le migliaia che si sono create in Siria: un sequestro di persona per estorsione da parte di un gruppo armato, finito con un omicidio, di un “infedele”, quindi un appartenente a una minoranza siriana (alawita o cristiana).  In Belgio, l’avvocato di Hakim sta lavorando per fare dichiarare invalida la confessione, perché il giovane ha il cervello irrimediabilmente danneggiato dalla ferita di granata – come è stato pure attestato da una commissione di medici. L’avvocato sta anche cercando di fare accorpare il giudizio per omicidio a quello per terrorismo, perché dice che i due reati sono naturalmente interconnessi.

 

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Le deposizioni dei pentiti potrebbero diventare più rare, perché da qualche mese abbandonare lo Stato islamico è diventato più difficile di prima. Il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi è circondato da nemici su tutti i suoi confini e le fazioni rivali non sono tenere con i jihadisti catturati e “però io stavo lasciando la guerra” non è una scusa accettata. Inoltre  il gruppo stesso punisce i disertori con violenza definitiva e ci sono storie su ex volontari che vorrebbero tornare a casa ma non possono perché temono di essere uccisi (e se pure riuscissero a eludere la sorveglianza dovrebbero fronteggiare poi un’accusa per terrorismo).

 

Il processo di Anversa accenna inoltre a un aspetto per lo più ignorato: l’incontro tra i giovani cresciuti tra gli agi dell’occidente e il jihad in Siria e Iraq, un teatro di guerra atroce, e la loro reazione all’impatto tra i due mondi, quello che si portano addosso dalla nascita e quello che scoprono dopo la hijra. Un giorno passi il tuo tempo nel Belgio indolente e assai premuroso con i suoi cittadini, un altro giorno vivi ormai a contatto diretto con la morte, sei a tiro dell’artiglieria nemica, mangi assieme a veterani del jihad che torturano, tagliano la testa ai prigionieri, partono per missioni senza ritorno su camion-bomba. Alcuni si adattano alla nuova condizione e diventano parte della scena, come per esempio “John”, il protagonista incappucciato nei video delle uccisioni degli ostaggi occidentali. Altri scoprono di non essere tagliati per la guerra in medio oriente e tentano di dare una seconda svolta alla propria vita, di tornare alla condizione di prima, all’occidente.

 

C’è un’immagine stereotipata dei muhajirin di ritorno dalla Siria come di fanatici programmati invariabilmente per uccidere. Ci sono infinite e penose gradazioni minori che arrivano fino al pentimento reale. In mezzo c’è chi rimane incastrato in un limbo indefinito: con gli amici vuole ancora apparire un veterano della guerra santa, davanti alla polizia, come Hakim,  cerca di mettere distanza tra sé e quello che ha visto e fatto. 

 

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Contattare i belgi in Siria non era così difficile nel 2012. Il Foglio ricorda di avere visto una proposta per giornalisti da parte di un combattente belga che apparteneva a un altro gruppo, Suqur al Sham, e che offriva un viaggio nel nord del paese, nell’agosto 2012. Nessun reporter a quanto si sa ha accettato, per l’impostazione ideologica, per la pericolosità in generale e perché il belga chiedeva soldi: cinquemila dollari.

 

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Dalle carte del processo di Anversa viene fuori che i volontari belgi erano una gamba di un gruppo chiamato “Majlis Shura Mujaheddin”, che poi sarà integrato dentro lo Stato islamico con un giuramento a partire dal maggio 2013. Anzi, si può dire che è proprio grazie a questo gruppo che lo Stato islamico è arrivato ed è diventato così forte nel nord della Siria. Majlis Shura vuol dire in arabo “assemblea del consiglio” e mujaheddin “combattenti del jihad”. E’ lo stesso nome composto che aveva in Iraq prima del 2006 il gruppo comandato dal giordano Abu Musab al Zarqawi, che è stato il volto del jihad contro le truppe americane e gli sciiti iracheni (Zarqawi è il fondatore ideologico dello Stato islamico comandato oggi da Abu Bakr al Baghdadi).  Il nome di quel gruppo in Siria era un omaggio chiaro a Zarqawi.

 

I ventenni europei che arrivavano a partire dal 2012 in avanti e andavano a ingrossare il Majlis sono stati testimoni forse senza rendersene conto di un pezzo di storia del jihad. Il loro capo era un siriano (anche lui abbastanza giovane, del 1979) e si chiama Amr al Absi, nom de guerre: “Abu Athir al Halabi”.

 

Abu Atheer al Halabi, un leader di alto livello dello Stato islamico.

 

Verso la fine del 2012 Abu Athir contatta con un messaggio al Baghdadi in Iraq e lo invita in Siria, gli chiede di espandere il suo gruppo nel paese in rivolta e gli offre la propria fedeltà. Fa anche da mediatore fra Baghdadi e i gruppi di combattenti islamisti del Caucaso che hanno formato una brigata tutta per loro e sono diventati lo spauracchio dei soldati del presidente Bashar el Assad nel nord (nota: in realtà sono pochi quelli davvero ceceni,  molti sono georgiani, daghestani, tagiki, ma l’aggettivo ceceno, “shishani”, funziona come un marchio e incute timore).

 

Abu Athir è il tessitore, il negoziatore, garantisce a Bagdhadi che i caucasici sono con lui se vorrà fondare un supergruppo in Iraq e in Siria (il futuro Isis). Nell’aprile 2013, il leader iracheno annuncia la nascita dello Stato islamico anche in Siria – e questo provoca la scissione con Jabhat al Nusra, un gruppo jihadista siriano che conta migliaia di uomini. Lo scisma potrebbe essere la rovina di Baghdadi, e invece non lo è perché lui ha dalla sua parte il gruppo di Abu Athir (belgi inclusi) e il gruppo dei ceceni, che riempiono i vuoti lasciati dagli scissionisti. Il siriano viene nominato Wali, governatore dello Stato islamico, per la città di Aleppo, come ricompensa da parte di Baghdadi (ora non lo è più).

 

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[**Video_box_2**]Walid Lakdim è stato in Siria dal novembre 2012 al gennaio 2013. “Il nostro gruppo era formato soltanto da combattenti che parlavano olandese, che erano arrivati dal Belgio e dall’Olanda. Il nostro capo era un siriano, Abu Athir. A parte il gruppo di lingua olandese, comandava anche un altro gruppo di arabi, soprattutto siriani. Stavano in un’altra casa. Noi eravamo chiamati i muhajirin, loro erano chiamati gli Ansar (i partigiani, ndr). Abu Athir spesso ci dava lezioni religiose. Houssein Eloussaki era il leader del nostro gruppo perché era arrivato in Siria per primo (settembre 2012, è morto in Siria un anno dopo, ndr). Quando c’ero io, il gruppo che parlava olandese era formato da 35, 40 combattenti, soprattutto dal Belgio. Combattevamo assieme a Jabhat al Nusra, all’esercito libero siriano e ad Ahrar al Sham. Ma il nostro obiettivo era la creazione di uno stato islamico”.

 

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Telefonata intercettata tra Ines el Hendi,  fidanzata di Houssein Eloussaki,  capo dei muhajirin, e Leila Serraf, fidanzata del fratello Hakim, che si chiedono perché Houssein è diventato “emiro” del gruppo. Leila: “E’ strano, è così giovane. Forse lo hanno fatto leader perché è stato il primo ad arrivare”. Ines: “Sì, penso anch’io. Dev’essere per questo”.

 

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Altre deposizioni raccontano che i siriani prendono dimora in un palazzo a Kafr Hamra, periferia occidentale di Aleppo, e gli stranieri europei in una villa distante  cinque minuti a piedi. Entrambe le residenze sono consegnate al gruppo dai ribelli nazionalisti dell’esercito libero – gli stessi che oggi sono allo sbando, condannati a morte e combattuti dalle fazioni più grandi del jihad. I belgi hanno un istruttore che si chiama Abu Mushab e ha fatto parte delle forze speciali egiziane. Hanno anche un altro addestratore che è un giovane siriano, studiava Fisica all’università e parla un inglese perfetto.

 

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Il testimone chiave nel processo di Anversa è Jejoen Bontinck, un giovane belga di origine araba che più assimilato di così non si poteva. Prima dei sedici anni Jejoen era un appassionato di danza hip hop ed era così bravo da essere finito in qualche video musicale. A quindici si è infatuato di una ragazza marocchina e si è convertito all’islam (per usare il termine islamico giusto: è tornato all’islam, perché secondo la dottrina tutti vaghiamo in una situazione umana opaca e confusa fino a quando non riscopriamo la nostra condizione originale di fedeli). Jejoen ha cominciato a vestirsi da islamico, a predicare in pubblico agli angoli delle strade e a frequentare il gruppo estremo Sharia4Belgium.

 

Il padre di Jejoen si chiama Dimitri, avverte le autorità ma si sente rispondere che non c’è nulla da fare: la legge non proibisce a un ragazzo di essere membro di quell’organizzazione, “ci sono la libertà di espressione e la libertà di culto e di associazione”. Jejoen nel 2012 chiede il permesso di andare a studiare arabo al Cairo, lo ottiene. Il giorno del compleanno della sorella non telefona per farle gli auguri. Il padre si insospettisce, fruga su Facebook, trova foto degli amici del figlio, sono tutti a combattere in Siria. Non vede Jejoen, ma capisce che anche lui è con loro.

 

Dimitri va anche lui in Siria, si fa accompagnare da un fotoreporter che c’è già stato. Viene preso da Jabhat al Nusra, che lo crede un agente della Cia – il tipo di paranoia in alcuni casi con esito mortale che accompagna ogni occidentale che viaggia nelle zone fuori dal controllo del governo di Damasco. Viene pestato e tenuto prigioniero, ma riesce infine a far capire il motivo del suo viaggio. I guerriglieri gli danno da mangiare, vestiti, cominciano a fargli da scorta, a garantire per lui e lo aiutano a trovare il figlio.

 

Jejoen nel frattempo ha detto ai compagni, dentro il suo gruppo, che vuole lasciare e tornare in Belgio. Lo bendano, lo ammanettano, lo buttano in una prigione per mesi. A un certo punto è trasferito nei sotterranei dell’ospedale pediatrico di Aleppo, dove lo Stato islamico tiene anche gli altri prigionieri occidentali. Conosce in cella James Foley, il freelance americano ucciso ad agosto davanti a una telecamera per ritorsione contro i raid aerei americani in Iraq. Conosce anche John Cantlie, il reporter inglese che oggi è ancora ostaggio dello Stato islamico ed è il protagonista di alcuni video di propaganda (l’ultimo è arrivato due settimane fa da Kobane, il cantone curdo sotto assedio). Bontinck promette di contattare le famiglie dei due se sarà rilasciato, cosa che avviene. E’ restituito al padre. Oggi è probabile che sarebbe molto più difficile, soprattutto per le informazioni di cui è in possesso. Per esempio: il giovane ex ballerino di hip hop ha parlato direttamente con Abu Obaida al Maghribi, un leader di origini marocchine e passaporto olandese che ha accesso diretto a Baghdadi ed è il capo della sicurezza dello Stato islamico nell’area di Aleppo. Al Maghribi è un elemento poco conosciuto nella catena di comando, ma essenziale.
In Siria i superstiti del gruppo belga si vendicano di chi parla. Elias Taketloune è tornato in Belgio nel maggio 2013 per la nascita del suo primo figlio (chiamato Shahid, martire) e si è consegnato alla polizia. Dice di avere avuto soltanto incarichi umanitari, non militari, ma gli ex compagni per ritorsione hanno messo su internet un video di lui con un fucile e sostengono che abbia partecipato a “numerose decapitazioni”.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)