The banker in chief. Draghi è l’unico ad avere una visione su come l’Europa può riprendersi dalla sua malattia, disse il Financial Times (Foto: LaPresse)

Chi ce l'ha con Draghi

Stefano Cingolani

Chi rema contro il presidente della Bce? Ecco come nasce l’astio (non soltanto tedesco) verso il banchiere centrale. Innovativo, politico e molto invidiato. Un divo, salvatore dell’euro e castiga-banche.

Chi ce l’ha con Mario Draghi? Ormai con una certa regolarità agenzie di stampa o giornali “che muovono i mercati” alla vigilia delle riunioni mensili della Banca centrale europea fanno filtrare indiscrezioni anonime secondo le quali Mario Draghi è sempre più isolato, infilzato da ogni lato come nel quadro raffigurante san Sebastiano che il suo mentore Guido Carli teneva nell’ufficio nobile della Banca d’Italia. L’ultima a gettare il sasso è stata la Reuters. Ma già ad agosto un giornalista specializzato in eurologia, David Marsh, pubblicava su MarketWatch (The Wall Street Journal) una nota secondo la quale Jens Weidmann, il banchiere centrale tedesco, era pronto a balzare sulla poltrona nobile dell’Eurotower. Per Draghi si sarebbe preparata una uscita onorevole con alte responsabilità politiche in Italia, magari al posto di un Matteo Renzi che non sarebbe sopravvissuto alle spallate della Cgil o addirittura di Giorgio Napolitano pronto ad annunciare il suo ritiro nel messaggio di Capodanno. Altro che sussurri, un pacchetto preconfezionato.

 

Che ci siano conflitti interni ai vertici della Bce è evidente: la Bundesbank è all’opposizione e non lo nasconde; ai vertici siedono uomini di scuole, paesi e tendenze politiche diverse. Ma finora Draghi ha potuto godere di una larga maggioranza: a parte i lussemburghesi, i finlandesi e gli olandesi (non sempre) gli altri governatori hanno sostenuto la sua politica. Quanto al comitato direttivo, la maggioranza è garantita. L’uscita del socialdemocratico Jörg Asmussen  diventato sottosegretario al Lavoro, sostituito dalla conservatrice Sabine Lautenschläger proveniente dalla Buba, ha introdotto per così dire una talpa. Però le posizioni sono chiare e la lealtà non è mancata. E allora a cosa si deve questa accelerazione? Le voci di dentro sono molte e diverse, ma ascoltandole emergono tre scuole di pensiero: Draghi si è spinto ai limiti del proprio mandato, innovando teoria e prassi della Bce; è troppo esposto sul piano mediatico e l’invidia alligna anche tra i banchieri centrali; infine i nuovi compiti di regolatore delle banche europee, che comincia ad assolvere da questo mese, scatenano giganteschi conflitti di potere.

 

Secondo la prima interpretazione, l’ultima goccia risale al 22 agosto ed è stata versata a Jackson Hole. Quel discorso davanti all’alto consesso, quelle lodi, quella eco sui mercati e in più i consigli di Stanley Fischer uno dei maggiori economisti e banchieri centrali, maestro di Draghi al Mit, prima di enunciare il nuovo paradigma. Ebbene, a molti, a cominciare dal Doktor Weidmann, è apparso chiaro che Super Mario stava volando troppo alto. La popolarità di Draghi non è mai andata giù ai custodi del tempio mentre gli zeloti della moneta lo rimproverano di essere troppo americano. Magari non esattamente keynesiano che poi oggi vuol dire di sinistra, ma interprete della “nuova sintesi” contro la quale si è sempre battuta la scuola monetaria tedesca contemporanea, erede della teoria austriaca.

 

La Draghinomics annunciata a Jackson Hole, basata su tre motori che debbono muoversi in sintonia (politica monetaria, politica fiscale e riforme strutturali) viene dritta dritta dal sincretismo bostoniano e dal manuale di Dornbush e Fischer. Lo ha spiegato ad Angela Merkel il suo ex assistente Weidmann, e la cancelliera, che poco sa di teoria, ma ha gran fiuto politico, ne ha capito subito le ricadute. Tanto da chiedere spiegazioni a Draghi: “Chi deve fare le riforme? Solo i paesi in deficit, o anche la Germania?”. “Anche la Germania, per esempio liberalizzando servizi e infrastrutture”. “E la politica fiscale? Mica vorrà metter bocca anche su quel che fanno i paesi virtuosi?”. “Ebbene sì, bisognerà coordinarla: i paesi che hanno spazio nei bilanci pubblici debbono investire”. “Cosa vuol dire faremo tutto quel che è necessario, fino a che punto stamperà moneta?”. “Finché l’aumento dei prezzi non sarà tornato al 2 per cento”. L’abboccamento s’è concluso con un invito a smussare gli angoli. La Merkel che tra il 2011 e il 2012 aveva difeso Draghi, adesso comincia a vacillare.  Mentre in molti insinuano che la Bce ha fatto già troppo per aiutare l’Italia, comprando Btp nel momento peggiore, inondando di liquidità le banche in modo che acquistassero titoli di stato, introducendo “astrusità” come le Omt (Outright monetary transactions) accusate di incostituzionalità in Germania, infine adesso con il Quantitative easing che in pratica vuol dire sostenere i titoli che più ne hanno bisogno, cioè quelli italiani. Non c’è solo lo scontro (politico, culturale, psicologico) tra l’establishment tedesco e un eminente italiano che anziché indossare l’elmetto con il chiodo si è messo il berretto verde dei marine. Naturalmente questo è il fronte principale, per l’importanza della Bundesbank, la rilevanza della Germania e anche la solidità della vecchia scuola monetaria austriaca, ripudiata dalla teoria e dalla prassi finanziaria anglo-americana. Tuttavia non bisogna mai trascurare il fattore umano.

 

[**Video_box_2**]Draghi ha introdotto uno stile molto più aperto e diretto. Basta seguire le conferenze stampa come quella di ieri nella quale ha tenuto testa ai giornalisti che pensavano di saperla lunga. Si risponde a tutti su tutto (magari non rivelando i celati intenti) e se è il caso si annunciano cose rilevanti per l’opinione pubblica e i mercati, fino a pubblicare le minute delle discussioni, come accade negli Stati Uniti. E senza prima aver riunito l’intero apparato, stile Partito comunista al cui modello sembra ispirarsi la struttura dell’Eurotower: il politburo, il comitato centrale, il congresso. Di qui le accuse per uno stile di lavoro personalistico e una governance rapsodica. Eppure il banchiere centrale è a suo modo un artista, come diceva Ralph G. Hawtrey nel suo classico studio del 1932, non un pilota automatico. Governatore in latino significa timoniere, e in mezzo alla tempesta non si riunisce la ciurma per chiedere dove andare. Del resto, Draghi non è il solo. Jean-Claude Trichet, diverso sia come stile sia come dottrina, nell’agosto 2007 quando cominciò la prima crisi dei subprime, decise in un attimo di stampare moneta. Invece, nella primavera del 2011 riunì tutto l’apparato e fece la scelta peggiore della sua carriera: alzò i tassi di interesse in piena crisi dei debiti sovrani.

 

Certo, Draghi è una figura ingombrante. Il Financial Times ha scritto che “è l’unico ad avere una visione su come l’Europa può riprendersi dalla sua malattia”. Per Forbes è il nono uomo più potente al mondo. Time l’ha inserito nella sua classifica dei primi cento. Chiunque faccia quel mestiere sogna prima o poi di mettere in ritirata la speculazione finanziaria. A Draghi è riuscito il 26 luglio 2012 e con una sola battuta che ancor oggi non si stanca di ripetere, come ha fatto in una intervista rilasciata nel settembre scorso a Jean-Pierre Elkabbach il principe degli intervistatori televisivi francesi, e trasmessa da Europe1: “L’euro è irreversibile e faremo tutto quel che serve all’interno del nostro mandato per garantire che sarà così”.

 

Quella frase non era concordata, anche se allora nessuno aveva avuto il coraggio di replicare. La casa bruciava e non restava che ingoiare il rospo. E adesso? Le cose stanno di nuovo volgendo al peggio. La Germania segna il passo. Anche la Francia è sotto tiro. E poi c’è l’Italia, la grande malata che ha rivelato la sua debolezza anche agli stress test bancari della Bce. In questo caso il gubernator non può essere accusato di parzialità, anzi molte banche italiane masticano amaro e si sentono penalizzate. E tuttavia, c’è chi comincia a chiedersi chi c’era alla Banca d’Italia quando il Monte dei Paschi comprava Antonveneta strapagandola senza averne le possibilità. E la vigilanza italiana che spesso monta in cattedra ha davvero vigilato fino in fondo? O non è stata troppo morbida con le sue controllate finendo per coprire le loro debolezze?

 

Draghi non è certo nemico delle banche. Anzi, ne riconosce il predominio nel sistema finanziario. Già nel Financial Stability Board non si è posto l’obiettivo di punirle anche se la grande crisi è covata al loro interno; al contrario ha cercato i meccanismi per rafforzarle. E lo hanno criticato da destra e da sinistra. Ma ora che diventa l’arbitro e il sorvegliante dei supermercati finanziari tedeschi, francesi, olandesi, belgi, lussemburghesi, ebbene arriva il momento di alzare il tiro, lanciare messaggi e se non basta siluri. Una tattica a lungo sperimentata che spesso colpisce il bersaglio. Malizia? Forse, ma meglio dietrologi che allocchi.