Scott Walker, il tosto governatore repubblicano del Wisconsin che ieri ha vinto la rielezione contro la candidata democratica Mary Burke, durante la notte elettorale

Come i “no” dell'adolescenza

Stefano Pistolini

Gli americani sono vulnerabili e insofferenti e nelle urne se la sono presa con il presidente-parafulmine. Ora i repubblicani devono dimostrare quanto sono adulti.

I risultati delle elezioni di midterm sono eloquenti. Se ne può trarre qualche descrizione riguardo allo stato mentale dell’America d’oggi. Una prima considerazione possiamo connetterla alle nostre esperienze personali: quando una storia d’amore va in pezzi, non c’è limite alle nefandezze e alle cattiverie che a vicenda ci si fanno, perché è l’ora della resa dei conti, dello sbotto di ciò che ti sei tenuto dentro e non esiste limite o continenza. E’ il momento dello sfogo. Poi, dopo, si potrà tornare a ragionare con calma.

 

La prima sensazione che arriva da questo voto americano è che sia il risultato d’una grande arrabbiatura collettiva, d’un enorme spavento preso tutti insieme, che è arrivato il momento di manifestare, provocando più rumore possibile, magari ricambiando della stessa moneta il primo della lista dei responsabili. La lenta, faticata risalita americana degli ultimi mesi ha tutta l’aria d’una convalescenza dopo una brutta malattia. Si sa che il malanno non sparisce da un giorno all’altro, ma lascia strascichi, e che quel senso di debolezza col quale si ricomincia spinge a credere che le cose non saranno più come prima, quando ti sentivi forte come un toro. Lo scampato pericolo della crisi economica ha lasciato tracce evidenti: la prima è una persistente sensazione di vulnerabilità e dunque un perenne senso di allarme e insicurezza.

 

Lo vedi anche passeggiando in uno shopping mall: le cose non torneranno più come prima. Un tempo è finito e ne è arrivato un altro, che soffre d’invidie e nevrosi verso il passato. Barack Obama, la sua politica ragionata, le sue sistematiche strategie siedono esattamente lì, sullo sfondo di questo quadro instabile. In un certo senso lo racchiudono. Oggi la maggioranza ti dice che sì, lui e i suoi avranno pur fatto qualcosa per turare le falle, ma non erano le cose giuste o andavano fatte in modo diverso. E che poi “loro” sapevano tutto, ma intanto s’occupavano d’altro. E che tutte le questioni rimaste aperte sul tavolo dei progetti insoluti  rafforzano la sensazione che il lavoro sia stato fatto male, confusamente, senza la grinta, la decisione, il killer instinct che ci vuole, quello che gli americani e i presidenti veri sanno dove trovare.

 

Già: “Gli americani si sono ripresi l’America” ha twittato stanotte Erick Erickson di redstate.com. Va considerata esaurita la penitenza per le magagne razziali della storia della nazione. Si è ingoiata la polpetta-Obama, con il gusto di dire a questo punto: tanto volevasi dimostrare. Il naufragio di Obama nel midterm è un fenomeno annunciato, contrabbandato come l’ennesima “aria alle stanze”. Ma va preso con positività perché servirà ad allentare le tensioni, permetterà ai repubblicani di presentare il loro disegno di rinnovamento, a patto che ne abbiano uno, e pretenderà dai democratici qualcosa di meglio dall’isterico bisogno di prendere le distanze, ciascuno sottolineando le differenze dal presidente e sbuffando d’insofferenza.

 

Già, l’insofferenza: è il sentimento dominante di questa elezione, più di qualsiasi tema concreto. Si è discusso di personalità, di supposta efficienza, di fallimenti, di alternative: tutti fattori umani. Idee: pochissime. Del resto così si sono convogliati alle urne i rappresentanti del più diffuso atteggiamento in circolazione: la perdita della pazienza verso la politica. Quello che un tempo si chiamava “voto di protesta” o “di sfiducia” è stato più un voto di “impazienza”. Noi italiani ne sappiamo qualcosa, no? Non si è approfondito, non si è strutturato un qualsiasi discorso politico, con un minimo di organicità: si è urlato che Obama ha sbagliato, che ha creato mostri e li ha disseminati nella società americana (la nuova sanità, le tasse, i pruriti ecologisti, per non parlare della marijuana e perfino dei gay), che ha offuscato la credibilità internazionale, ha sabotato il sistema interno. Adesso è tutto da rifare. Di fronte a questi argomenti, l’opposizione democratica è stata quasi ammiccante. Se lo meritano un rovescio così, i dems americani, privi d’identità e di attributi come si sono dimostrati. Col trionfare dei soliti pagliacci da talk show (è rispuntata perfino Ann Coulter!) è passata la tesi che la narrativa d’una nazione possa essere ribaltata istantaneamente, come quella di un telefilm. Arrivano i nostri, sparacchiano agli indiani, gli mettono il sale sulla coda, salvano la pulzella, titoli di coda e popcorn. Anche qui, siamo al trionfo dell’antipolitica, o di una post politica coi ritmi intossicati da videogioco. Quando mai se ne potrà trovare una qualche utilità per fronteggiare la realtà?

 

Raramente la politica è stata lontana dalla verità come in questa sgangherata sessione elettorale. Ma va bene così: il prossimo biennio permetterà agli americani di farsi un’idea precisa su come stiano effettivamente le cose e su quale sia il reale margine d’intervento della politica sulla vita reale. Capire, per esempio, se proprio “reale” e “politica” siano due fattori ancora intrinsecamente connessi tra loro, come lo erano in passato. O se terribili errori e manomissioni dei principi fondanti abbiano provocato un effettivo scollamento.

 

Adesso, intanto, Obama sconta una vicenda di viscerale antipatia o di spinoso risentimento verso l’uomo dei sogni: non granché come sinossi di un’elezione. Il presidente assiste alla celebrazione della sua inefficienza e della sua irrilevanza. Un rito pagano da seguire sullo smartphone. Certamente non ne è sorpreso. A guardarlo, da un pezzo appariva rassegnato a questo destino, col distacco, la nonchalance, lo scetticismo che ha venato tante sue ultime apparizioni. Sconta e può solo chiedere al tempo d’essere il suo giudice. Nella solitudine del biennio conclusivo, cercherà residui di prestigio in qualche performance internazionale (l’accordo sul nucleare iraniano, per esempio), lancerà appelli bipartisan che cadranno nel vuoto e verranno derisi, per tempo si preparerà a chiudere casa, avviandosi al tempo dei bilanci. Non ci vorrà molto prima che indizi di nostalgia obamiana facciano capolino. Ma è un’altra storia e viene dopo capitoli tutti da scrivere, come l’effettivo rinnovamento repubblicano che questa elezione delinea, un giovanilistico “renzismo” conservatore che desta interesse, la definizione del “roster” per le presidenziali, la complicata tensione tra lo smantellare, il rifare, il “tornare a…” su cui il Partito repubblicano proverà a diventare di nuovo adulto – e forse ci riuscirà, o forse s’impantanerà.

 

[**Video_box_2**]L’altro messaggio, che suoni a monito a casa Clinton, ma anche a casa Bush (dove sarebbero in atto manovre per spedire un altro rampollo alla Casa Bianca) è che anche l’America sta traversando la sua fase adolescenziale del “no” preconfezionato, della sfiducia per istinto, del sospetto dopo bruciatura. “Attento a chi voti!”, “Basta con gli esperimenti” sono slogan che resteranno in sospensione dal midterm verso il 2016 e con essi un generico disgusto verso chi ha avuto troppo le mani in pasta, fino a corrompersi o a disciogliersi nelle tentazioni. L’imbarazzante e imbarazzata campagna elettorale di Obama o di Bill Clinton e i rovesci che hanno provocato anche solo sulla base dello stato di appartenenza – in Illinois, come in quell’Arkansas che si credeva più un regno che la casa di Bill – danno segnali inequivocabili. Chi c’è già stato deve mostrare di avere le mani davvero pulite per tornare – e chi può davvero dire di averle, dopo anni d’intrighi nella capitale? Forse la strada di Hillary è meno lastricata di certezze di quanto si pensava e forse i repubblicani possono finalmente dimostrarsi capaci di superare il loro antifemminismo e la loro incapacità nello scegliere il candidato giusto e nel trovare il mix e la faccia giusta, quel lincolniano sodalizio tra ragione e forza che ipnotizza gli americani. Salvo poi ricredersi, pentirsi e ricominciare a scuotere la testa. Oggi più che mai, per la maggioranza di loro, Washington è un trogolo e le Camere sono un postribolo. Quanto al presidente: o ha la capacità d’impressionare o è destinato a diventare il Parafulmine. Ma chi può impressionare le folle per tanto tempo? Giusto un prestigiatore. E allora che l’America cerchi il suo Grande Prestigiatore.

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