Matteo Renzi (foto LaPresse)

L'importanza di un nemico a sinistra

Claudio Cerasa

Renzi studia mediazioni “cosmetiche” per non strozzare la minoranza del Pd. Il senso dello strappo con Landini e i muscoli sul Jobs Act.

Vi raccontiamo come sono andate le cose. Ieri mattina, durante la riunione del Foglio, la redazione ha ragionato a lungo con il direttore sul governo e, senza avere una risposta precisa, si è posta alcune domande su un punto cruciale della riforma più importante della banda Renzi. Fino a dove avrà il coraggio di arrivare il presidente del Consiglio, con il famoso Jobs Act? Che mediazioni sarà costretto a concedere il segretario del Pd per evitare un’ondata eccessiva di proteste? E fino a che punto il rottamatore riuscirà a essere coerente con affermazioni roboanti come quelle offerte ieri mattina a Brescia? (“C’è un disegno per dividere il mondo del lavoro”, “è finito il tempo del ‘si farà’”, “le cose si fanno ora o mai più”).

 

Per capire bene il campo sul quale ci stiamo avventurando, come sempre capita quando si parla di Renzi, occorre distinguere tra due piani paralleli: il piano mediatico e il piano parlamentare. Sul piano mediatico il successo di Renzi è rotondo e lo si può valutare mettendo insieme i due obiettivi raggiunti dal presidente del Consiglio: far approvare alla direzione del Pd, con una maggioranza bielorussa (86 per cento), l’abolizione parziale dell’articolo 18 (messaggio: cari elettori, la sinistra rottama i suo vecchi tabù) e far approvare in Senato, con una prova di forza, il disegno di legge delega sul Lavoro nelle stesse ore in cui Renzi si trovava a Milano a presidiare un vertice sul lavoro con i capi di stato europei (messaggio: cara Europa, fidati di noi, l’Italia sta cambiando verso). Sul piano parlamentare il discorso è più complicato e lo potremmo riassumere così: tutti sanno che Renzi non ha di fronte a sé ostacoli insormontabili per approvare la riforma del lavoro (a parte le otto ore di sciopero generale annunciate entro novembre dalla Fiom e le due manifestazioni convocate sempre da Landini il 14 novembre a Milano e il 21 novembre a Napoli) ma tutti sanno anche che per evitare una lacerazione profonda del Pd occorre mettere in campo la strategia delle “due vittorie”: si concede qualcosa di simbolico alla minoranza del partito e si permette al segretario di cantare comunque vittoria. Conviene a Renzi, che potrebbe mantenere valido l’obiettivo di vedere approvata la riforma entro il 31 dicembre. E conviene alla minoranza del Pd, che oggi si trova nella classica situazione lose-lose: perde se forza troppo la mano (se Renzi va al voto la minoranza del Pd sparisce); e perde anche se non forza la mano (una sinistra che non fa una battaglia sull’articolo 18 che sinistra è?). Dal punto di vista parlamentare – anche se l’ordine dato dal presidente del Consiglio ai suoi ambasciatori (Filippo Taddei e Lorenzo Guerini) è quello di essere duri e accettare mediazioni solo in cambio di tempi certi – l’accordo non è lontano: Renzi potrà mostrare i suoi muscoli, e cantar vittoria, facendo approvare con la fiducia il disegno di legge delega; ma dall’altra parte la minoranza del Pd ha ottenuto il via libera per una mediazione. Si tratta di questo: al disegno di legge delega approvato il 9 ottobre al Senato verrebbero aggiunte delle modifiche formali in grado di recepire quanto approvato dalla direzione del Pd lo scorso 29 settembre (circoscrizione dei licenziamenti per ragioni disciplinari, chiarimento sui miliardi destinati agli ammortizzatori sociali, rassicurazioni sul taglio delle forme contrattuali precarie). Il testo, che così modificato dovrebbe poi essere nuovamente approvato al Senato, permetterebbe di cantare vittoria sia alla minoranza del Pd (“abbiamo costretto Renzi a modificare la legge!”) sia al segretario del Pd (“abbiamo approvato lo stesso testo varato in direzione!”).

 

[**Video_box_2**]Questa dunque la cornice politica. Una cornice che darà alla minoranza del Pd la possibilità di giustificare la propria adesione alla linea del segretario (anche se alcuni deputati, come Fassina e Civati, voteranno ugualmente contro e accuseranno il segretario di aver tradito il suo mandato elettorale) ma che non permetterà al leader del partito di ricucire i rapporti con quello che fino a qualche mese fa sembrava essere un sindacato amico: la Fiom di Landini. E’ forse scorretto – specie in queste ore in cui i dati economici continuano a essere simili alla melodia di un gufo (secondo l’Istat, l’effetto della manovra sarà nullo nel biennio 2015-2016) – dire che Renzi sia orgoglioso e soddisfatto di avere alcune piazze schierate contro il governo. Ma è invece corretto notare, come fanno in molti a Palazzo Chigi, che, per Renzi, avere un nemico a sinistra non è, come lo era un tempo, un tabù da evitare ma è un ingrediente fondamentale della propria leadership. E la battaglia contro la Cgil, che oggi incarna in modo compiuto la sinistra dalla quale Renzi si vuole differenziare, anche a costo di costringere quella sinistra a ragionare sull’ipotesi di una scissione, è una battaglia che il premier combatte su vari fronti: sul lavoro, insistendo con il superamento dell’articolo 18 (e la partita qui è nel disegno di legge delega che dovrebbe arrivare in Aula alla Camera tra il 15 e il 17 novembre); sulla manovra, sottraendo risorse importanti al sindacato (nella legge di stabilità sono previsti tagli ai patronati per circa 150 milioni di euro, un terzo delle attuali risorse a disposizione). Lo scontro, dunque, Renzi prova a evitarlo ma fino a un certo punto. E’ Renzi in fondo il leader che alla Leopolda ha detto che “qualcosa a sinistra succederà”. Ed è Renzi  il leader che continua a ripetere ai suoi che una mediazione si potrà trovare solo se questa mediazione sarà “cosmetica”: darà cioè l’occasione ai suoi avversari di avere un piccolo scalpo ma non metterà a rischio l’acconciatura della riforma. “Credo – dice al Foglio uno storico volto della Cgil, Alberto Morselli, ex segretario nazionale Filctem-Cgil, oggi nel direttivo nazionale della Federazione dei chimici  – che la Cgil dovrebbe rendersi conto che la sua battaglia contro il governo, e contro la sinistra rappresentata dal segretario del Pd, sia una battaglia che, per come è stata organizzata, rischia di confinare il nostro sindacato all’interno di un perimetro pericoloso: quello di chi difende l’esistente ed è ostaggio del passato. Difendere l’articolo 18 può avere un senso solo se si mostra disponibilità a sperimentare qualcosa di nuovo, e se si offrono soluzioni non retoriche. E nel 2014, un sindacato come il nostro non può permettersi il lusso di essere tutt’uno con la parola conservazione”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.